Siamo apparentemente in un periodo di buone notizie in campo economico, almeno se facciamo un confronto con gli ultimi anni di devastante crisi. Non si tratta solo del PIL che finalmente cresce in modo decente (pur rimanendo l’Italia in coda in Europa), ma anche dell’occupazione, il cui aumento è guidato dal numero sempre più grande di persone attive, ovvero di coloro che o lavorano o cercano un impiego. E’ questa forse la novità maggiore degli ultimi tempi.
Rispetto al 2011 il tasso di attività è cresciuto nel nostro Paese più di quanto sia accaduto in Francia, Germania, Spagna, in media nella UE.
È aumentato anche durante gli anni più bui della crisi, il 2012 e il 2013, per poi accelerare oggi. A inizio 2017 vi era quasi il 4% di attivi in più rispetto a 6 anni fa, contro crescite dello zero virgola in Francia e Germania
Si tratta in parte dell’effetto statistico della legge Fornero, che nelle statistiche occupazionali interviene sempre come un peso massimo a influenzarne le dinamiche più di ogni altra variabile, ma soprattutto negli ultimi anni non è solo questo.
Nelle più recenti rilevazione sul mondo del lavoro dell’ISTAT si certificano infatti cali dell’inattività anche in altre fasce di età, non solo tra gli ultra 50enni.
E non a caso diminuiscono del 4,6% tra 2017 e 2016 coloro che tra gli inattivi non cercano ma sono disponibili a lavorare, in particolare tra le donne. Ma non basta mettersi alla ricerca di un lavoro, bisogna poi trovarlo, ed è qui che cominciano i guai.
I risultati infatti non sono quelli sperati. L’Italia è il Paese in Europa in cui la percentuale di inattivi che transitano verso la disoccupazione tra un trimestre e un altro è più alta, il 6,2% finisce tra i senza lavoro.
Una proporzione molto più alta di quella, il 2,3%, di coloro che transitano tra l’inattività e l’occupazione. Buona parte dei Paesi europei fa infatti decisamente meglio.
La dinamica storica rende più chiaro quello che è accaduto. Si vede benissimo come per l’Italia mentre calava la quota di persone che da un trimestre all’altro continuava a essere inattiva, rimaneva stabile la percentuale di coloro che trovavano un lavoro e invece cresceva quella dei nuovi disoccupati.
È un fenomeno non di oggi, si è velocemente manifestato negli anni della crisi, ma il fatto particolare è che è rimasto piuttosto stabile nel tempo, fino al 2017, nonostante il miglioramento della situazione occupazionale complessiva.
I nuovi attivi che si affacciano sul mondo del lavoro sono, a guardare le statistiche, variegati, sono soprattutto donne più che uomini, stranieri più che italiani, giovani, laureati.
Un identikit tipo potrebbe includere uno straniero che vive al Nord e una giovane 25-30enne laureata del Sud che hanno deciso che bisognava muoversi e c’era bisogno di cercare lavoro.
Le reti di welfare familiare vengono meno (crollano i matrimoni e aumenta il numero di single) e quelle dello Stato non sono mai esistite sotto una certa età. Una mossa fatta più per necessità che per reale speranza di trovare un impiego, come si vede dai risultati.
Questo ci porta ancora una volta a riconoscere l’esistenza continua di una divisione nel mondo del lavoro. E’ evidente se osserviamo anche le statistiche riguardo la probabilità per un disoccupato di trovare lavoro tra un trimestre e l’altro. Questa rimane bassa, tra il 2013 e il 2016 è salita solo di un punto, tra il 13 e il 14%. Il confronto con i progressi spagnoli, un +5% dal 14% al 19%, è impietoso. Ancora di più quello con il Regno Unito e la Francia, dove esiste più dinamismo di quanto pensiamo.
Il blocco degli occupati, degli insider, e quello degli outsider, degli inattivi e dei disoccupati che cercano di entrare rimangono separati, c’è poca porosità, poca transizione tra uno e l’altro.
I miglioramenti nell’occupazione provengono oltre che dai soliti ultra 50enni che in pensione non ci vanno più, solo da una fascia di giovanissimi che sta trovando più lavoro dei coetanei di alcuni anni fa, ma soprattutto in quei settori a basso valore aggiunto che richiedono ancora molte braccia, pagandole il meno possibile.
I grandi cambiamenti strutturali nel mondo del lavoro a livello globale che vedono il tramonto dell’industria e dei servizi tradizionali e la nascita di nuovi lavori nell’ambito del digital e dell’alta tecnologia in Italia vengono assorbiti quasi solo negli effetti collaterali che vedono una crescita dei posti da magazzinieri o camerieri, e anche quando queste transizioni verso impieghi ad alto valore aggiunto ci sono, riguardano quello stesso blocco di insider che è già garantito.
Questo perchè in Italia manca l’olio che dovrebbe muovere gli ingranaggi della macchina del lavoro, che dovrebbe vedere sia un continuo ingresso di nuove forze, di ex inattivi e disoccupati, sia trasformazioni di competenze, ovvero l’olio della formazione.
Questo perchè in Italia manca l’olio che dovrebbe muovere gli ingranaggi della macchina del lavoro, che dovrebbe vedere sia un continuo ingresso di nuove forze, di ex inattivi e disoccupati, sia trasformazioni di competenze, ovvero l’olio della formazione.
Nel Paese con meno laureati mancano anche quelle politiche attive per il lavoro, che si traducono altrove in formazione continua fatta dai privati o dallo Stato. Mancano quelle grandi aziende che si preoccupano di allevare in casa giovani ancora senza competenze, e la volontà politica di spendere qualcosa in più del 0,17% del PIL (contro lo 0,6% della Danimarca, quasi il quadruplo) che viene destinato alla formazione nell’ambito delle politiche per il lavoro.
Quasi tutti i Paesi spendono più di noi in questa direzione, Germania, Francia, Danimarca, appunto, nonostante abbiano in teoria meno necessità dell’Italia e la loro situazione occupazionale sia meno drammatica, ma forse ne hanno meno bisogno proprio perchè già decenni fa avevano capito che non era possibile lasciare alle mancette familiari milioni di giovani non istruiti che un giorno avrebbero chiesto di entrare nel mondo del lavoro, trovando solo mosche.