L’uomo che ha reso indipendente la Catalogna per otto secondi rischia di andare in prigione per 25 anni. Il presidente del governo catalano Carles Puigdemont (da pronunciare Puigmòn), martedì ha dichiarato al Parlamento regionale che Barcellona sarà la capitale di un nuovo stato indipendente. Dopo un lungo applauso dell’aula (in realtà 56 secondi a essere fiscali), il colpo di scena: «Proponiamo di sospendere gli effetti della dichiarazione di indipendenza per stabilire un processo di dialogo». Indipendenza sì, anzi no.
Questo Amleto spagnolo ha causato la più grave crisi politica dalla guerra civile. Da quando è diventato nel gennaio 2016 presidente della Generalitat, il governo autonomo della Catalogna, ha trasformato un reale bisogno di una parte della popolazione in un ambizioso disegno politico personale. Ha indetto un referendum illegale, senza le minime garanzie procedurali e senza il controllo di un organismo indipendente, votato il 1 ottobre da meno della metà della popolazione locale. E ora, Puigdemont, si trova senza l’indipendenza ma con i suoi effetti più gravi. Molte banche e aziende hanno già abbandonato: Caixabank, la terza banca di Spagna, il Banco Sabadell, perfino la Sociedad General de Aguas de Barcelona. Se non fosse una tragedia, ci sarebbe da ridere.
Il partito Candidatura d’Unitat Popular, l’alleato più intransigente della coalizione pro indipendenza al governo della regione, non capisce il dietrofront ed è pronto a gridare al tradimento. Stretto tra le pressioni internazionali e il fronte interno, Puigdemont ha elaborato una supercazzola istituzionale per guadagnare tempo. Gli unionisti sperano in una soluzione pacifica ma non vedono come il leader catalano possa uscirne indenne. Neanche a Madrid hanno le idee chiare, o forse le hanno anche troppo. Dall’Aula del Parlamento nazionale, mercoledì il presidente del Governo Mariano Rajoy ha preteso una posizione precisa: Puigdemont ha dichiarato l’indipendenza, sì o no?
Una mossa per mettere all’angolo il leader catalano e costringerlo ad assumersi la responsabilità, senza nascondersi dietro il dito del risultato del referendum. Puigdemont avrà cinque giorni per chiarire, e altri tre per rettificare nel caso confermasse la scelta di secedere dalla Spagna. Se confermerà l’indipendenza o non chiarirà la situazione, Rajoy chiederà al Senato di attuare l’articolo 155 della costituzione spagnola che permette di sciogliere il governo della comunità autonoma ribelle.
Per ora tutto il mondo aspetta. Né Rajoy, né Puigdemont vogliono passare alla storia come il politico che ha causato l’irreparabile. In questo “stallo alla catalana” ci sono le posizioni degli altri partiti. Podemos vuole un dialogo pacifico, i socialisti appoggerebbero l’uso dell’art.155 ma chiedono una riforma della costituzione per trasformare la Spagna in uno Stato federale come la Germania.
In politica tutte le strade sono possibili. Come insegna Frank Underwood, il personaggio della serie tv House of Cards, interpretato da Kevin Spacey: “Se non ti piace come il tavolo è disposto, gira il tavolo”. Il leader catalano non ha girato il tavolo. Lo ha preso, sollevato e lanciato in faccia al governo centrale. Quale reazione politica si aspettava? Che un presidente come Mariano Rajoy lasciasse accadere pacificamente l’indipendenza dopo aver costruito per anni la sua fortuna politica come mite guardiano dell’unità nazionale?
La strategia degli indipendentisti era chiara: forzare la situazione e mettere il governo nazionale davanti al fatto compiuto. Dopo le minacce di Madrid, Puigdemont non ha annullato il referendum sapendo che ci sarebbe stata una reazione violenta da parte della Guardia Civil. La scusa perfetta per passare come martire. Per il martirio vedremo, ora intanto il presidente catalano rischia la prigione. L’articolo 472 del codice penale spagnolo prevede una condanna fino a 25 anni per chi compie il reato di ribellione e dichiara “l’indipendenza di una parte del territorio nazionale”.
Puigdemont dice di avere dalla sua parte un popolo che si è espresso liberamente nonostante la violenza. Chiariamo una cosa: è vero, il 92% ha votato per l’indipendenza. Ma il 58% della popolazione non è andata alle urne. Quasi sei catalani su dieci sono rimasti a casa. Per capirci, meno persone del 48% di catalani che ha votato per i partiti pro indipendenza nelle elezioni regionali del 2015.
Senza contare che Puigdemont non ha nemmeno avuto un’investitura diretta del popolo. È diventato presidente della Generalitat il 10 gennaio 2016, grazie a un accordo dell’ultimo minuto tra il suo partito Junts pel Sì e Candidatura d’Unitat Popular. Il suo predecessore e compagno di partito Artur Mas aveva indetto le elezioni anticipate nel 2015 chiedendo ai catalani di votare come se fosse un referenfum per l’indipendenza. Ma non ha nemmeno raggiunto la maggioranza assoluta. Per questo Puigdemont, fino a quel momento, sconosciuto ex sindaco di Girona si è trovato al potere di una coalizione di partiti che vanno da destra a sinistra uniti da un solo tema: indipendenza.
Sarebbe stupido negare che la questione catalana non esiste. Barcellona ha le sue ragioni. La Catalogna è la regione più ricca di Spagna e contribuisce a non far fallire altre regioni più povere come la Galizia. Ha una sua lingua e una sua idenitità e le richieste di maggiore autonomia fiscale e non sono sempre state respinte da Madird. Nel 2010 la Consulta spagnola ha definito incostituzionale lo statuto sull’autonomia catalana del 2006, approvato nel pieno rispetto delle regole, perché non accetta il concetto di Catalogna come “nazione” anche se dentro la Spagna. Rajoy, al governo da sette anni, non ha mai cercato un dialogo per arrivare a un compromesso politico.
La Catalogna insomma avrebbe tutte le ragioni. Puigdemont ha cavalcato questo sentimento ma l’ha usato per soddisfare delle ambizioni politiche personale: imporre la sua agenda politica entro la fine del suo mandato da Presidente della Generalitat.
“Pugi”, come lo chiamano gli amici, ha l’ossessione dell’indipendenza fin da bambino. Viene da Amer un piccolo borgo nel nord della Catalogna a pochi km da Girona, di cui è stato sindaco dal 2011 al 2016 prima di diventare presidente. Nella sua famiglia sono tutti pasticceri (nonno, padre e fratello) ma ha sempre fatto il giornalista. Prima nel giornale El Punt, dove dall’81 ha scritto sempre e solo d’indipendenza. Poi nel 1999 ha fondato l’Agenzia di notizie catalana e nel 2004 è diventato direttore di Catalonia Today, giornale locale in lingua inglese. In entrambi i casi, progetti voluti e finanziati dalla Generalitat. Puigdemont ha unito le sue due grandi passioni, la filologia e la Catalogna, nella sua prima vittoria politica. Nel 1991 è riuscito a far trasformare del nome della sua città adottiva da Gerona (in Castigliano) a Girona (in Catalano). Poliglotta (oltre al catalano e al castigliano parla francese, inglese e rumeno), porta un caschetto alla Beatles per coprire una cicatrice frutto di un incidente d’auto che gli è quasi costato la vita nel 1983. E tutte le sere fa 100km per tornare dalla famiglia. Il suo sogno è quello di lasciare il potere un minuto dopo la proclamazione della Repubblica e tornare a una vita tranquilla. Come un Cincinnato che ha compiuto il suo dovere da bravo catalano quando è stato chiamato in causa.
Insomma Puigdemont è un uomo normale con un’ossessione, a capo di una coalizione variegata che sta insieme solo per un motivo. Ogni politico è libero di scegliere le battaglie da combattere. Ma la sua colpa è di non aver creato un consenso politico interno ed esterno prima di forzare la mano. E soprattutto non avere un piano B nel caso le cose vadano male. Nessun Paese dell’Unione europea e del mondo ha riconosciuto il nuovo Stato. Gli indipendentisti speravano in un effetto Kosovo che nel 2008 si era staccatato dalla Serbia, dichiarando l’indipendenza. Nel giro di poche ore Stati Uniti, Francia e Regno Unito avevano subito riconosciuto il nuovo Stato. L’effetto Kosovo non può esserci per la Catalogna perché politicamente non ci sono stati accordi né con gli altri partiti spagnoli, né con i leader internazionali.
In politica tutte le strade sono possibili. Come insegna Frank Underwood, il personaggio della serie tv House of Cards, interpretato da Kevin Spacey: «Se non ti piace come il tavolo è disposto, gira il tavolo». Il leader catalano non ha girato il tavolo. L’ha preso, sollevato e lanciato in faccia al governo centrale. Quale reazione politica si aspettava? Che un presidente come Mariano Rajoy lasciasse accadere pacificamente l’indipendenza dopo aver costruito per anni la sua fortuna politica come mite guardiano dell’unità nazionale?
Un atteggiamento politicamente irresponsabile, simile a quello dei brexiters, coloro che hanno spinto per l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea. La politica è l’arte del compromesso, non una clava da usare senza preoccuparsi delle conseguenze. Una vignetta dell’Economist di questa settimana riassume al meglio l esomiglianze tra i leader di Regno Unito e Catalogna: Puidgemont e Theresa May sono letteralmente impantanati nelle conseguenze politiche delle loro decisioni: votare è la parte più facile. Poi bisogna fare i conti con un mondo globalizzato e l’economia internazionale. O si rischia di lottare nel fango a lungo.
This week's cartoon from KAL pic.twitter.com/G4OfPljpLc
— The Economist (@TheEconomist) October 6, 2017