Tutto quello che c’è da sapere sui referendum di domenica in Lombardia e Veneto

Breve guida aggiornata alla doppia consultazione per l'autonomia. Da una parte il centrodestra (ma con Fratelli d'Italia freddi) e il Movimento 5 Stelle. Dall'altra il Pd e la sinistra (ma con i sindaci ribelli). La sfida si giocherà soprattuto sull'affluenza

Siamo vicinissimi al voto. Domenica 22 ottobre, in Lombardia e Veneto ci saranno i referendum (consultivi) per l’autonomia. Un doppio appuntamento che ha riportato al centro del dibattito politico il tema del Nord e delle sue aspirazioni autonomiste. A indire i referendum sono stati due presidenti di Regione leghisti, Roberto Maroni e Luca Zaia, con il sostegno di tutto il centrodestra e il voto decisivo del Movimento 5 Stelle, che in Lombardia ha ottenuto l’eliminazione della richiesta di Statuto speciale. Persino numerosi amministratori locali del Pd si sono schierati per il Sì all’autonomia, negli ultimi mesi, nonostante l’indicazione del partito per la non partecipazione al voto. Sarà la prima volta che su questo argomento quasi 16 milioni di cittadini italiani saranno chiamati a pronunciarsi in una consultazione istituzionale, pur non vincolante. Ecco perché è utile sapere di che si tratta, aggiornando la nostra guida pubblicata a luglio.

Il primo aspetto da sottolineare è che il voto in Lombardia e in Veneto è diverso da quello che ha provocato una crisi istituzionale in Catalogna. In quel caso si è trattato di una richiesta di indipendenza. Il 22 ottobre si voterà invece per sostenere l’avvio di una trattativa fra le due Regioni italiane e il Governo nell’ambito della Costituzione e, quindi, dell’unità nazionale. I referendum di Lombardia e Veneto sono distinti, si voterà però in concomitanza nella stessa giornata: domenica 22 ottobre: le urne saranno aperte dalle ore 7 alle 23. Diverse, però, sono le modalità di voto previste. La Lombardia, su impulso dei consiglieri grillini, ha deciso di sperimentare il voto elettronico. Ai seggi, gli elettori troveranno quindi delle voting machine. Il Veneto, invece, continuerà a utilizzare le tradizionali schede di carta.

Nella sostanza, l’obiettivo dichiarato dalle due Regioni è comunque lo stesso: ottenere maggiori forme di autonomia dallo Stato. In termini tecnici, si tratta di negoziare un’autonomia differenziata, come previsto già dal terzo comma dell’articolo 116 della Costituzione repubblicana. Nella forma, i due quesiti referendari sono però formulati in maniera diversa. Essenziale, quello del Veneto: “Vuoi che alla Regione del Veneto siano attribuite ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia?”. Più circostanziato, il quesito che gli elettori lombardi troveranno sulla loro scheda elettronica: “Volete voi che la Regione Lombardia, in considerazione della sua specialità, nel quadro dell’unità nazionale, intraprenda le iniziative istituzionali necessarie per richiedere allo Stato l’attribuzione di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, con le relative risorse, ai sensi e per gli effetti di cui all’articolo 116, terzo comma, della Costituzione e con riferimento a ogni materia legislativa per cui tale procedimento sia ammesso in base all’articolo richiamato?”.

Il voto in Lombardia e in Veneto è diverso da quello che ha provocato una crisi istituzionale in Catalogna. In quel caso si è trattato di una richiesta di indipendenza. Il 22 ottobre si voterà invece per sostenere l’avvio di una trattativa fra le due Regioni italiane e il Governo nell’ambito della Costituzione

Ma quanta efficacia potranno avere (se l’avranno) i due referendum del 22 ottobre? Il primo aspetto da tenere in considerazione è, appunto, la loro natura consultiva. Se vinceranno i Sì, alle due Regioni non saranno attribuite di diritto maggiori forme di autonomia. La trattativa che dovrà seguire i due referendum (se ci sarà) sarebbe già possibile ora, proprio sulla base dell’articolo 116 della Costituzione: è quello che inizialmente il centrosinistra aveva ricordato a Maroni e Zaia, i quali però hanno sostenuto di non essere mai stati ascoltati dai Governi in carica. L’articolo 116 è, dunque, una guida essenziale. La norma stabilisce che la singola Regione interessata, sentiti gli enti locali, può chiedere di avere maggiori materie di competenza fra quelle elencate come concorrenti con lo Stato nel successivo articolo 117 in materia di ambiente, istruzione, rapporti internazionali e – soprattutto – coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario. Una volta firmata, l’intesa fra Stato e Regione deve essere ratificata con una legge, che per essere approvata deve ottenere il voto della maggioranza assoluta dei componenti (non bastano i presenti) delle due Camere. Un iter non scontato e lungo. Anche se sia Maroni sia Zaia hanno anticipato di voler chiedere i poteri esclusivi su tutte le materie concorrenti, oltre che maggiori risorse per abbattere il residuo fiscale nei confronti dello Stato (54 miliardi la Lombardia, 15 il Veneto), nonostante questo non sia previsto dai quesiti.

Ecco perché l’aspetto di maggior peso dei due referendum può essere il secondo. Quello politico. I presidenti di Lombardia e Veneto hanno dichiarato di voler ottenere un sostegno popolare chiaro, perché il Governo non li possa ignorare quando chiederanno formalmente l’apertura di una trattativa che, come detto, sarebbe di diritto possibile avviare già oggi, come nel frattempo ha fatto per esempio l’Emilia Romagna guidata dal governatore Stefano Bonaccini, ma che i promotori dei referendum sostengono di non aver mai ottenuto. Se i referendum non saranno vincolanti, è il ragionamento di Maroni e Zaia e dei loro sostenitori, vincolante sarà il messaggio politico che uscirà dalle urne la sera del 22 ottobre. E qualunque Governo sarebbe costretto a prestarvi ascolto. Per fare un esempio più eclatante, anche quello sulla Brexit non è stato un referendum vincolante, ma di fatto lo è diventato.

In pochi, persino fra i detrattori di questa operazione politica, dubitano che il Sì possa prevalere largamente sia in Lombardia sia (ancor di più) in Veneto. Anche per questo a determinare la solidità del messaggio popolare sarà soprattutto un risultato: non la semplice vittoria del Sì, ma il livello di affluenza. In Veneto serve che voti la metà più uno degli elettori. In Lombardia, invece, non c’è quorum. Il livello di partecipazione al doppio referendum di domenica è, insomma, il vero dato politico che sarà analizzato alla chiusura delle urne. Finora, la campagna referendaria è stata molto sotto tono, se si eccettua la grande mobilitazione comunicativa a livello istituzionale: le Giunte regionali di Lombardia e Veneto hanno tappezzato le città di manifesti e hanno fatto stampare decine di migliaia di volantini e di lettere per informare i cittadini dell’opportunità di voto (segno, anche questo, della necessità di battere l’ormai tradizionale astensionismo). Gli oppositori, Pd in testa, hanno in particolare denunciato i costi della doppia consultazione: hanno per esempio calcolato che nella sola Lombardia, complice anche il voto elettronico, la spesa è già oltre i 55 milioni di euro.

La campagna referendaria è stata finora sotto tono. Gli oppositori, Pd in testa, hanno in particolare denunciato i costi della doppia consultazione: hanno per esempio calcolato che nella sola Lombardia, complice anche il voto elettronico, la spesa è già oltre i 55 milioni di euro

Ad alzare il livello di attenzione sui referendum di Lombardia e Veneto è stata, di recente, proprio la crisi della Catalogna. Tutti, a partire da Maroni e Zaia, hanno fatto a gara a prendere le distanze dallo scontro istituzionale in atto fra Barcellona e Madrid. Persino il segretario della Lega, Matto Salvini, e il suo predecessore, Umberto Bossi, che hanno dovuto ammettere che la strada dell’indipendentismo fa parte del loro passato. Ma la contraddittoria storia leghista ha scatenato uno scontro all’interno del centrodestra, che ha di fatto sancito la rottura del cosiddetto fronte sovranista. Giorgia Meloni, la leader di Fratelli d’Italia, ha infatti lasciato libertà di voto ai suoi dirigenti locali ma ha denunciato i due referendum come propagandistici e lesivi della coesione nazionale. L’equilibrio ha cercato di riportarlo Silvio Berlusconi, che ha appoggiato pubblicamente i due governatori leghisti: “Non vogliamo rompere l’Italia, ma il federalismo è nel nostro programma dal 1994”.

Dietro i referendum ci sono, del resto, non solo questioni istituzionali, ma anche calcoli più strettamente politici. Non potrebbe essere altrimenti. Da una parte, proprio la Lega e il centrodestra che cercano di consolidare i buoni risultati delle Amministrative e di riconfermarsi alla guida delle Regioni del Nord (in Lombardia si voterà entro la primavera, Maroni è alla scadenza del primo mandato), offrendo un messaggio antico ma sempre verde: tenersi i soldi a casa propria. Dall’altra parte, un Pd che cerca di rimettersi in sintonia con un territorio che ha spesso faticato a rappresentare, evitando di lasciare solo alla Lega il tema delle autonomie (contro Maroni si dovrebbe candidare il sindaco di Bergamo, Giorgio Gori, che ha lanciato il comitato per il Sì insieme al sindaco di Milano, Giuseppe Sala, e altri). In mezzo, c’è il Movimento 5 Stelle, che vuole dimostrare di non essere solo il partito dei No, sfruttando un’importante occasione per radicarsi in un Nord da cui non è ancora riuscito a ottenere grande fiducia. Anche se i big del Movimento hanno di fatto disertato la campagna referendaria.

Twitter: @ilbrontolo

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