Yves Mény: ”Il populismo è inadeguato alla società di oggi”

Per il politologo però i movimenti di protesta avranno vita lunga, anche perché l'Europa ha un problema: non ha un'identità a sorreggerla. Prevale, dunque, la frammentazione e la liquidità dell'offerta politica. Finché non si viene messi alla prova del governo

Per chi studia il fenomeno del populismo senza farsi distrarre dai colpi della cronaca di giornata, il libro di Yves Mény, politologo e presidente della scuola superiore Sant’Anna, è un punto di riferimento d’obbligo. Si intitola Populismo e democrazia, lo ha scritto con Yves Surel ormai quindici anni fa, ma è ancora freschissimo nella sua analisi. Il populismo è una parola che, di anno in anno, si è moltiplicata nel discorso pubblico in Occidente. Soprattutto in Europa, dove si è appena concluso un ciclo di un anno e mezzo di elezioni e referendum che ha rimesso in discussione le certezze della democrazia rappresentativa e del sistema dei partiti tradizionali. Ma che cosa è rimasto, di questa ondata di protesta che l’etichetta populista ha dapprima segnalato e, poi, offuscato? “La politica europea è diventata liquida, stiamo vivendo un periodo di grande instabilità e di grande redistribuzione delle carte”, risponde il professor Mény a Linkiesta. “Ma – aggiunge – non sarei troppo pessimista, gli elettori si sono accorti che le risposte semplicistiche non bastano a risolvere i problemi”. In Austria, la destra nazionalista è però a un passo dal ritorno al Governo con la destra moderata che si è, invece, radicalizzata sull’immigrazione, il rapporto con l’Islam, la sovranità economica.

Professore, insomma, dopo il voto in Austria e la loro cospicua presenza elettorale in diversi Paesi anche importanti, siamo di fronte alla normalizzazione dei movimenti populisti in Europa?
No, nel senso che probabilmente vedremo i partiti della destra populista partecipare al governo in Austria e anche in alcuni Paesi scandinavi, sempre come partner di minoranza. Ma certo quello non è il loro ruolo naturale. I partiti populisti fanno fatica a entrare nelle istituzioni. E quando capita hanno di fronte due opzioni: fallire o entrare nella corrente politica mainstream. Quando arrivano al potere, è dunque difficile che sopravvivano senza cambiare.

Come possiamo leggere il quadro europeo, da questo punto di vista?
Credo che la situazione politica europea sia liquida. Più o meno in ogni Paese c’è un partito populista che ottiene consensi. Il fatto è che stiamo vivendo un periodo di grande instabilità e di grande redistribuzione delle carte, ma non sarei troppo pessimista, anche se il populismo non è l’unico elemento in gioco.

E con quali altri elementi si può combinare?
I partiti populisti si possono legare a manifestazioni di autoritarismo, per esempio. Di recente si sono collocati quasi tutti nella fascia della destra radicale, anche se in generale raccolgono voti in tutte le aree politiche. Che sposino la destra radicale non è positivo, perché in passato abbiamo vissuto gli effetti che queste tendenze hanno avuto sulla democrazia.

Perché, dunque, non è pessimista?
Perché per il momento è emerso che il discorso populista, con le sue risposte semplicistiche, si è rivelato incompatibile con la complessità della società e dei suoi problemi. Gli elettori se ne sono accorti. Penso che il momento emblematico, in questo senso, sia stato il discorso di Marine Le Pen all’ultimo dibattito televisivo con Emmanuel Macron, prima del ballottaggio delle presidenziali francesi. La Le Pen è apparsa incompetente e ha preso uno schiaffo da quegli elettori che l’avrebbero voluta votare anche senza condividerne tutte le idee.

Un elemento chiave è stata la vittoria di Macron in Francia, non solo perché ha battuto una candidata estremista come la Le Pen ma soprattutto per un altro motivo. Macron è infatti riuscito ad affrontare frontalmente il problema, non rincorrendo l’avversario ma offrendo una proposta radicalmente opposta

Dal voto delle presidenziali austriache, passando per il referendum sulla Brexit per arrivare al voto in Germania, è stato un anno e mezzo di elezioni particolarmente imprevedibili in Europa. Che cosa è cambiato, a conti fatti?
Le rispondo che il contributo più decisivo che i partiti populisti hanno dato non è stato nell’accesso a posizioni di potere, appunto, ma nell’imporre quella che si chiama l’agenda politica. In questo, hanno avuto sicuramente successo. I partiti populisti sono stati bravi a impadronirsi dei temi caldi e difficili che gli altri partiti, quelli tradizionali, non sono in grado di gestire. Però poi si è rivelato difficile anche per loro passare all’azione. Lo vediamo con Donald Trump: è arrivato alla presidenza americana, ma la sua filosofia resta bloccata nei 240 caratteri di un tweet. Siamo, insomma, al grado zero della politica.

Ecco, Trump: ha consolidato o viceversa indebolito le forze populiste in Europa, una volta che è entrato alla Casa Bianca e ha dovuto passare all’azione?
Diciamo che gli Stati Uniti sono un Paese importante e giocano un ruolo decisivo. Ma sono anche lontani. Trump si è, dunque, rivelato un elemento di indebolimento, ma lo sono stati anche altri fattori più importanti e vicini. Il primo è sicuramente la Brexit, che doveva essere una marcia di liberazione ed è diventata invece una via crucis. Il secondo elemento chiave è stata la vittoria di Macron in Francia, non solo perché ha battuto una candidata estremista come la Le Pen ma soprattutto per un altro motivo. Macron è infatti riuscito ad affrontare frontalmente il problema, non rincorrendo l’avversario ma offrendo una proposta radicalmente opposta.

Una differenza non da poco, viste altre esperienze…
Sì, i partiti tradizionali troppe volte hanno cercato compromessi con quelli populisti. Invece il contributo di Macron è stato questo: ha segnalato che i populisti non sono invincibili. Detto questo, beninteso, non sono stati nemmeno sconfitti. Avremo a che fare per molto tempo con forme di agitazione, di protesta, di mobilitazione politica alternativa. A destra, ma anche in situazioni meno estreme come in Spagna con Podemos. E poi ci sono le mobilitazioni territoriali, come quelle in Catalogna o in Scozia. Ecco perché parlo di liquefazione del sistema politico europeo.

Alle elezioni Europee del 2014 era proprio l’Unione Europea il nemico dei populisti, che ne profetizzavano una rapida dissoluzione. Ora questo tema è secondario rispetto a quello dell’immigrazione. Ma l’Ue, secondo lei, come uscirà trasformata da questa liquefazione politica di cui parla?
Sicuramente l’Unione Europea dovrà trasformarsi. Come lo farà, non si sa ancora. Anche perché il problema più serio che l’Europa deve affrontare è quello dell’identità. Dietro alla protesta, ai populismi, alla liquefazione politica c’è una ricerca di identificazione culturale e anche territoriale che l’Europa ideologicamente non sta soddisfacendo. E visto che questo sostegno ideologico manca, prendono importanza le religioni, i networks transnazionali, le identità territoriali, la nostalgia del piccolo e del passato. Quindi, le fonti di frammentazione oggi sono parecchie e sono forti, senza che si vedano all’orizzonte nuove capacità di aggregazione come quelle che riuscivano ad assicurare i partiti politici tradizionali.

Alla fine, quali partiti populisti sono destinati, secondo lei, a rimanerre sulla scena?
I populismi che riescono a sopravvivere sono quelli che a poco a poco riescono appunto ad adeguarsi al quadro politico in cui sono inseriti, come dicevamo all’inizio. Per parlare del caso italiano, dico che sopravvivono i populismi come quello di Forza Italia delle origini, un partito che è riuscito a conquistare un’esperienza di governo, così come ha fatto la Lega Nord, che non è più quella di una volta. Vedo anche un’evoulzione del Movimento 5 Stelle, che finalmente ha scelto un leader diverso dal fantasma ufficiale che è Beppe Grillo. Ci può insomma essere un’evoluzione, e qualcosa si sta vedendo. Che poi queste proposte politiche siano efficaci una volta arrivate al governo, è tutto da vedere. Ma se forze come i 5 Stelle andranno finalmente al potere significherà che il sistema sta iniziando a digerire anche le espressioni politiche più radicali. Se invece i 5 Stelle o altri partiti simili in Europa non riusciranno mai ad andare al Governo, significa che hanno fallito.

Twitter: @ilbrontolo

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