Partiamo ancora dal caso Weinstein, ma questa volta per lasciarlo sullo sfondo. Da quando le due inchieste di New York Times e New Yorker hanno scoperchiato il vaso di Pandora dei ricatti sessuali nel dorato mondo dello star system, i tentativi di parlare di violenza sessuale nei suoi aspetti più quotidiani (#metoo e #quellavoltache) non hanno sviato l’attenzione dalla Hollywood scintillante e peccaminosa: Alec Baldwin litiga con Asia Argento, Kevin Spacey fa coming out e finisce nella stessa rehab di Weinstein e ognuno sembra vederci chiaro (lei ovviamente ci stava; lui non ci stava; quella è stata solo un’avance…) come se in quelle stanze d’albergo ci avesse messo piede di persona. O almeno spiato dal buco della serratura.
Rimane sottotono il sommerso della violenza tra le mura domestiche, dove chi abusa non è l’estraneo o il conoscente, ma la persona più vicina in assoluto. Se ne sente parlare in termini soprattutto numerici ed emergenziali, e in effetti a livello statistico è molto più consistente della violenza che viene “da fuori”. Quello che sappiamo davvero, però, è ben poco e infarcito di luoghi comuni. Se così non fosse, le denunce tardive delle vittime illustri non avrebbero destato tanto stupore.
Secondo Cristina Carelli, coordinatrice della Casa di accoglienza delle donne maltrattate di Milano: “è importante approfittare dell’attenzione mediatica per fare un focus sulla violenza di genere in senso ampio, perché la matrice è la stessa”.
Figlio del movimento femminista degli anni ’80, CADMI è stato il primo Centro antiviolenza d’Italia e nei suoi 31 anni di attività ha accolto ben 30mila donne. Ci siamo rivolti a chi ci lavora, in particolare a Cristina e a Stefania Rossi (responsabile della comunicazione), per chiarire qualche punto e per farci raccontare il percorso che affronta una donna vittima di violenza per uscire da una situazione di abuso.
Il vostro centro è nato negli anni ’80, in un periodo in cui di violenza domestica e violenza di genere si parlava ben poco: “tra moglie e marito non mettere il dito”…
Non se ne parlava affatto: tutto restava all’interno della famiglia. Le donne che hanno fondato il nostro centro però, incontrandosi per motivi politici, hanno capito che stando insieme si sentivano più forti e hanno applicato lo stesso modello per le vittime di abusi. È nato così il primo centralino telefonico di ascolto, e poi gli incontri fisici in sede.
Cosa succede durante gli incontri?
La prima cosa da capire è che il maltrattamento, anche nelle donne più forti ed emancipate, produce un indebolimento della persona, soprattutto dal punto di vista dell’autostima e della capacità di riconoscere le proprie competenze. La cosa più importante quindi è far notare loro i propri punti di forza, oltre a monitorare costantemente il livello di rischio cui sono sottoposte. Il nostro obiettivo è questo: mettersi in prima persona a fianco delle donne per dare un sostegno umano, anche a quelle che magari non ci sono simpatiche. L’uscita dalla violenza è la priorità.
Non esistono donne predisposte al maltrattamento.
Che tipo di donna si rivolge a voi?
Donne di tutti i tipi. Da un po’ la percentuale di italiane e straniere si attesta intorno al 60 e 40%. Al momento ci sono tante ragazze giovani, tra i 18 e i 28 anni: segnale che c’è violenza anche nelle coppie giovani, ma che le ragazze sono anche quelle più capaci di chiedere aiuto, perché più informate e meno sensibili a una certa vecchia “cultura del sacrificio”. È importante dire che il maltrattamento è trasversale: abbiamo incontrato donne di tutte le formazioni, le professioni e le classi sociali. Laureate, professioniste, donne che prima di incontrare l’uomo maltrattante avevano vissuto relazioni positive. E ciò conferma che non esiste la predestinazione, non ci sono donne “predisposte”. I tratti simili derivano dall’aver vissuto la stessa esperienza. Tra questi, la bassa autostima. È come se non avessero più presente chi sono. Si sono abituate a silenziare i propri desideri anche a loro stesse. Hanno poi una dimensione della paura molto forte, che si avverte fisicamente. Prima di approdare qua (parla Cristina) non avevo mai avuto a che fare con questo tipo di paura: una paura che senti sulla pelle e che ha a che fare con la dimensione della vita e della morte.
Quali sono le tappe del percorso d’aiuto?
Quando riceviamo una telefonata cerchiamo di valutare subito il livello di rischio cui la donna è esposta, poi le organizziamo un appuntamento al centro. Gli incontri diventano periodici: si monitora il rischio, si lavora sull’autostima e si valutano i progressi che la donna è riuscita a compiere. È un lavoro di emersione: individuiamo i punti di forza della donna, che spesso si colgono dalle strategie che ha messo in atto per sopravvivere, e cerchiamo di liberarla dai sensi di colpa (per può venir fuori che qualcuna di loro era stata una brillante professionista, ma ha dovuto abbandonare perché il compagno non approvava). Una volta tornate consapevoli, sono loro stesse a creare dei progetti.
Poi ci sono le case a indirizzo segreto, il nostro grande progetto di ospitalità: comuni appartamenti (che in genere ospitano due donne ciascuno), destinati alle situazioni più gravi, cioè a rischio vita.
La violenza passa (anche) dai soldi.
Anche gli uomini sono radicalmente diversi tra loro? E quali sono i maltrattamenti più comuni?
La trasversalità vale anche per i maltrattanti: non sono per forza lo straniero o l’uomo che ha dipendenze da alcol e stupefacenti. Non sono i più ignoranti o quelli che praticano i lavori più umili. Sono uomini di ogni tipo. E più è alto il livello sociale e culturale, più la violenza è sadica, sofisticata. La violenza fisica è quella più immediata, più facile da riconoscere dai soggetti maltrattati, che di solito vivono anche in un contesto di violenza psicologica che faticano a vedere come tale. Così come la violenza sessuale: anche obbligarti ad aver rapporti quando non ne hai voglia è violenza. Molto diffusa e poco riconosciuta è anche la violenza economica.
In cosa consiste?
Il controllo della persona attraverso il denaro è, a tutti gli effetti, una forma di maltrattamento. Tolti i casi estremi – negare cure mediche, obbligare la compagna a contrarre debiti…) ci sono forme più striscianti, dalle massime “in casa mia una donna non lavora” al boicottare la ricerca di un impiego, oppure non informare sull’entità del patrimonio familiare, magari dare un mensile (una sorta di paghetta) chiedendole di giustificare ogni spesa. Sono tutte forme di deprivazione che sottraggono autonomia. E un pensiero che matura in questo tipo di situazioni è di non avere diritti perché “provvede a tutto lui”.
A questo proposito, fornite un supporto anche lavorativo?
Abbiamo vinto due anni fa un bando ministeriale che ci ha permesso di creare uno sportello lavoro che mira a essere un progetto sempre più strutturato di reinserimento lavorativo e di potenziamento delle capacità individuali. Tante si ritrovano a dover abbandonare del tutto la vita precedente, quindi a doversi reinventare anche dal punto di vista professionale. Organizziamo quindi un po’ di coaching lavorativo, incontri psicologici mirati e lavoriamo per costruire legami con le aziende, perché possano offrire opportunità di stage.
Quanto tempo dura nel complesso un percorso?
Si pensa che una donna arrivi da noi e volti subito pagina. Anche le istituzioni si aspettano questo tipo di tempistica, invece il percorso è lungo e complesso: un’esperienza umana, legata a sentimenti, emozioni e alla costruzione di un progetto di vita. Devono capire e accettare che quella che stanno vivendo è una situazione di violenza, poi devono maturare la scelta di chiudere la relazione. Un altro elemento di scontro con le istituzioni, soprattutto con la regione, è che da noi non c’è obbligo di denuncia. Nel caso abbiamo 10 avvocati a disposizione (tra civilisti e penalisti) e uno sportello legale. Ma il nostro intervento non è condizionato da questo: anzi, non chiediamo nemmeno le generalità se non le vogliono fornire spontaneamente.
Sono scelte nette, anche dal punto di vista politico.
Questo è un luogo politico. Crediamo nell’emancipazione delle donne, nel fatto che hanno delle competenze e che sono loro stesse a riprendere in mano la propria vita. Il nostro non è solo un servizio: noi siamo qui perché vogliamo cambiare la cultura, il modello sociale che ha legittimato l’uso della violenza maschile nell’ambito delle relazioni.