C’è un fantasma che si dimena sulla superficie della narrativa, anzi, della scrittura in generale, di ogni genere, foggia e formato. Dal cinema alla letteratura, dal fumetto fino addirittura al commento giornalistico e critico, ogni cosa che esce dalle nostre tastiere è dominata dal nostro ego. Selfie stick, ombelichi santificati, mausolei alla propria infanzia, adolescenza, storia d’amore e via dicendo. Un fumetto come The Rust Kingdom di Tommaso Di Spigna, detto Spugna, non fa nulla di tutto questo. E riesce lo stesso a risultare una brocca d’acqua agli occhi dell’assetato che ha appena finito di traversare un deserto.
Fresco, autentico, senza bisogno di fronzoli o di paraculate generazionali, senza il peso di metafore esistenziali o di argute citazioni, semplice, efficace, sincero come il sangue e la merda. Questo è The Rust Kingdom, ovvero il fumetto al suo grado zero che, a tre anni di distanza da Una brutta storia, volume d’esordio di Spugna edito da quei loschi geniacci della Grzzz di Genova, conferma il nome del suo autore tra quelli da tenere d’occhio nel mondo del fumetto italiano contemporaneo. Ma mica solo italiano, visto che la barricadera Hollow Press l’ha pubblicato sia in inglese che in italiano, ché questo genere di perle pare si vendano molto bene nei mercati del fumetto di mezzo mondo.
In molti, sia lettori che recensori, stanno accostando questo fumetto all’ultimo episodio della saga di Mad Max: Fury Road, girato due anni fa da George Miller e vincitore a mani basse di quasi tutti gli Oscar tecnici del 2016. Non è un caso e non è affatto spropositato, perché, esattamente come Mad Max: Fury Road, anche The Rust Kingdom non solo dimostra di sapere come colpire fortissimo il lettore allo stomaco, ma anche di saper afferrarlo per i capelli portandoselo dietro dalla prima all’ultima vignetta, che è poi l’unica vera regola della creazione di un qualsiasi contenuto: portare il fruitore dall’inizio alla fine, usando qualsiasi mezzo.
Anche qui, come nell’ultimo episodio della saga di Miller, la trama si assottiglia fin quasi allo zero, stando comodamente e per intero nella micro sinossi che accompagna il volume nel risvolto di copertina: «In una landa desolata infestata da vermi e barbari deformi, da un buco nel terreno emerge uno spadaccino senza nome. Pur di raggiungere la sua meta, farà a pezzi qualunque cosa ostacoli il suo cammino, qualunque cosa». Serve altro? No.
27 parole. 216 caratteri. Non servono molte altre parole, tanto che anche all’interno della graphic novel di discorsi non ce ne sono quasi. In un colpo solo impariamo due cosette che fanno molto comodo quando si parla di fumetto a cominciare dalla più preziosa: ovvero, ecco come si fa a divertirsi, divertire e costruire una piccola perla senza aver per forza bisogno di sparare in faccia ai lettori una qualsivoglia versione di sé stessi.
Insomma, mentre la prima persona sbrodolante domina ogni media, dai giornali fino a quelle giungle per eghi sfigati che chiamiamo social network e che sono ormai una ecolalia di ragli asinini di ego disperati e soli, e mentre il remake sembra rimasta l’unica strategia narrativa vincente, un fumetto come The Rust Kingdom è, come nella storia che racconta, uno spadaccino senza nome, nato dal nulla, destinato al nulla, un’entità che, intanto che ci passa davanti attraversando la desolazione di un deserto popolato di subumani deformi, schifosi vermi dentuti e mostruose creature incancrenite, fa a pezzi ogni cosa che si trova davanti, dall’ultimo dei vermi fino all’ultimo ostacolo che lo divide da un trono.
Probabilmente ci sarà anche qualcuno che, non soddisfatto da tanta libertà e immaginazione che proverà a scervellarsi, a identificare dietro quei vermi informi e dietro quel mondo di ruggine decadente, noi e il deserto e sociale che ci stiamo costruendo intorno. E il bello è che avranno ragione pur avendo torto. Perché è pur vero: un’opera appena esce dall’abbraccio del proprio autore vive libera nel mondo dei proprio lettori, e, proprio da quei lettori, viene interpretata secondo il proprio capriccio, ma se dietro all’ombra dello spadaccino possiamo vederci quella dell’autore, creatore e insieme distruttore del proprio immaginario, è proprio perché, finalmente, ha smesso di dirsi allo specchio quanto è bello il proprio ombelico.