Macché Suburra, i (veri) misteri di Roma sono sottoterra

Matteo Trevisani nel suo “Il libro dei fulmini” (Atlantide) racconta i misteri della Città Eterna. Dal rifugio di Mussolini vicino a Villa Torlonia, al tunnel tra Palazzo Chigi e Montecitorio, fino al cunicolo (si dice) usato nel rapimento di Aldo Moro. E c'è anche il segreto culto dei fulmini

“A Roma tutto quello che c’è di vero sta sottoterra”, scrive Matteo Trevisani nel suo Il libro dei fulmini (edizioni Atlantide, 2017). Cosa vogliamo farci dire da questa frase? Assai probabilmente, un conforto, una sponda alla desolazione cronica che le questioni romane c’ispirano. La leggiamo, riportata qui, fuori dalla sua storia, e forse annuiamo, pensando a Suburra, Romanzo Criminale, Mafia Capitale, il Divo, il Palazzo, i palazzinari, i tombini che esondano, le buche: tutte manifestazioni, non importa se finzionali o reali, della marcescenza e della corruzione delle fondamenta della città, entrambe invisibili agli occhi e per questo incontrollabili, dunque irreparabili.

Se lo stiamo facendo, oltre che in errore, siamo in malafede (in uno dei suoi articoli sulla Roma antica e pagana, pubblicati da Il Foglio, Alessandro Giuli spiegò: “mala fides= tradimento consapevole della dea Fides, la divinità della forza che fida, cioè lega e unisce i pari di rango”). Roma marcescit in seme ipsa” (Roma marcisce in se stessa) disse Gregorio Magno, che – poverino – fu papa mentre i longobardi razziavano mezza Italia, la Chiesa fronteggiava uno scisma (I Tre Capitoli), a Roma c’era la peste, il Senato era stato silurato: incredibilmente, tutto questo, per lui, era l’ultima, grande occasione di rinascita che la città offriva al cristianesimo. Erano le spighe nate dai semi marciti che gli iniziati ai misteri eleusini (in Grecia) venivano condotti a osservare, in una grotta sottoterra: lo ricorda Giovanni nel suo Vangelo, che Gregorio Magno doveva aver letto.

Tanto per il paganesimo quanto per il cristianesimo, la marcescenza è la condizione della resurrezione. La storia di Roma è la storia di questa dialettica ed è questo il vero che, a Roma, sta sottoterra e di cui Trevisani ha scritto nel suo romanzo, che inizia passeggiando per Roma “come se non fosse mai esistita altra città che lei” e finisce con un ritorno dal regno dei morti. Nelle Elegie romane di Josif Brodskij si legge a un certo punto che “questa piazza sembra da lassù la luna: senza fontana, certo, ma la pietra è la stessa”. La cosa che tutti pensiamo quando attraversiamo la città è che ogni secolo ha pietre che ne testimoniano il passaggio e ogni pietra è più antica del secolo di cui è testimone.

Ma c’è anche altro: la pietra della luna è la stessa della piazza, dice Brodskij. La pietra è il simbolo della fissità, la luna dell’imprevedibilità. Roma è fatta di luna: è questo che a fa imprendibile, eterna, concava. Ci mette sempre davanti alla congiunzione di due opposti. Di immutabile e lunatico. Di sopra e sotto. Di emerso e sommerso. Di cielo e terra. Di vivi e morti. Presto o tardi, quella congiunzione comincia a riguardarci e allora, scrive Trevisani, diventa essenziale avere un punto di vista dal quale osservarla.

Il mistero è il punto di vista di questo romanzo e, forse, quello più adatto a scoprire perché nelle viscere di Roma si siano costruiti passaggi, cunicoli, bunker segreti

Negli ultimi anni abbiamo scelto, tutti, quello più facile, più ovvio: lo scandalo. Il mistero, invece, è il punto di vista del romanzo di Trevisani e, forse, quello più adatto a scoprire perché nelle viscere di Roma si siano costruiti passaggi, cunicoli, bunker segreti (il rifugio di Mussolini nei pressi di Villa Torlonia, il tunnel tra Palazzo Chigi e Montecitorio e quello, leggendario, che unirebbe gli antichi forti militari compreso il Braschi ex sede degli 007 a tutti i palazzi del potere fino a Montecitorio, che si dice fu usata durante il sequestro Moro e il Golpe Borghese); perché durante il pontificato di Clemente X, che mandò al rogo la prima strega, Finnicella, dagli scavi emerse la Venere Capitolina, uno dei più venerati simboli del femminile; perché a Roma, dove niente è circolare perché tutto è assurdo, esiste una sola chiesa a pianta rotonda, Santo Stefano; e insomma perché a Roma il potere non è solo quello che erige ma pure, forse soprattutto, quello che scava.

La città ha un compito: unire l’ancestrale e il terreno, farli comunicare: tutto, in lei, è sottomesso a quest’onere, che è il solo dato di fatto della sua storia, dei suoi culti, delle sue leggende. L’avventura di Matteo Trevisani (fiction, auto-fiction, tutte e due, nessuna: chi lo sa, ciò che conta, di questo libro, è la sua sapienza) lo porta non a caso sulle tracce dell’antichissimo culto dei fulmini che, secondo i romani, era “la prova del controllo degli dei sul mondo”. Il pastorale dei vescovi cristiani non è altro che l’evoluzione del lituus, il bastone che gli antichi sacerdoti battevano in terra invocando i lampi. Nel punto in cui un fulmine cadeva, il regno dei vivi e quello dei morti entravano in connessione. Non solo: dagli etruschi, i romani avevano imparato a leggere la volontà divina dentro ogni fenomeno naturale, fulmini compresi. Per questo li evocavano. Il Cielo, per i romani, era il dio supremo: Giove. E Giove informava attraverso i tuoni e i venti: per questo, ascoltare il cielo era un atto di conoscenza. Quando Romolo fondò Roma, un fulmine colpì il braciere e accese “il nuovo fuoco dell’Urbe”. Uno dei personaggi complementari del romanzo è un professore universitario, di cui il protagonista è stato allievo: a un certo punto, dice che “la linea sopra la quale è stata edificata Roma, l’axis mundi, procede dallo spazio interno a quello esterno”: “l’idea che per andare sopra si debba passare da dentro” è il paradigma della conoscenza di cui volgere lo sguardo al cielo è una parte e che Roma insegna o insegnerebbe, se solo la osservassimo e la indagassimo con l’intento non di disseppellirne il marcio, ma di resuscitarne il potere.

Roma è la metropoli dei fantasmi che non trovano pace, la città dove i punti in cui cadevano i fulmini andavano sigillati poiché in essi vita e morte s’incontravano, la città nella quale Enea trova il pertugio per scendere nell’Ade. E’ la città stregata dalle streghette che minacciavano “dammi i sordi o ti faccio seccà li cojioni!” ai marchesi

A Roma si vive in due posti contemporaneamente, sempre, e non è detto che siano uno alla luce e uno all’oscuro, anche perché – scrive Trevisani – “a Roma le cose si celano nell’evidenza di tutto il resto”. Quei due posti sono la realtà e la sua espansione magica, nella nostra coscienza, nella nostra fede, nella volontà di Dio, degli dei (a Roma c’è posto per monoteisti e politeisti) dove noi non possiamo esercitare la nostra, ma possiamo sperimentare il significato più alto dell’essere strumenti. Quella espansione magica non è interna alla coscienza, ma interna al terreno su cui si cammina (per questo il protagonista de “Il libro dei fulmini” impara chi è scavando non dentro di sé, ma sotto di sé). A Roma non conta l’indagine psicologica: conta lo scavo archeologico. O meglio: lo scavo archeologico è un’indagine psicologica.

Poi, ci sono le creature che scortano e proteggono l’equilibrio di questa operazione che a Roma tutti, coscientemente o meno, compiono: i gatti, che sono animali sacri tanto nella Suburra quanto ad Torpignattara, perché hanno, del divino pagano, la bizzosità del cielo e della terra. Nei gatti rivivono i morti: Roma è la metropoli dei fantasmi che non trovano pace, la città dove i punti in cui cadevano i fulmini andavano sigillati poiché in essi vita e morte s’incontravano, la città nella quale Enea trova il pertugio per scendere nell’Ade. È la città stregata dalle streghette che minacciavano i marchesi – “dammi i sordi o ti faccio seccà li cojioni!” e dalla Mater Lacrimarum dei film di Dario Argento, nota già a Caligola: la città del potere femminile perseguitato ma invincibile, perché rimasto celato, a costo di farsi bruciare e farsi scambiare per prostituzione demoniaca.

Il solo punto sul quale cattolici e protestanti concordano, dopotutto, è che Roma sia “la prostituta”.

Roma è una città familiare, fatta di famiglie, spiega il professore del Libro dei fulmini: anche quando sembrano aver perso potere, lavorano nell’ombra, “come le api dei Barberini”. Noi crediamo che la città sia in mano alla politica, ai complotti dei suoi palazzi: è una verità che coesiste con quest’altra, più grande, del destino deciso dalle ombre (niente di evanescente o demoniaco, attenzione: si tratta del potere di governare le cose anche senza poterle più comprare, un potere che a Roma si è tramandato di generazione in generazione, di famiglia in famiglia e non di partito in partito).

Roma è stata (è?) caput mundi perché ha sempre saputo che “i mondi possono sovrapporsi”. Devono, sovrapporsi.

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