Made in China 2025, il progetto che rivoluzionerà l’industria cinese (e l’economia mondiale)

Il progetto, lanciato nel 2015, punta a rinnovare radicalmente la produzione cinese, cambiandone completamente l'immagine. E questo avrà effetti sull'economia di tutto il mondo

La globalizzazione avanza, e la Cina non resta indietro. Anzi, il paese si sta creando sempre più spazi di azione all’interno del mercato globale, cercando di modificarne gli assetti, e mirando al trono di prima potenza industriale mondiale per il 2049, anno del centesimo anniversario della fondazione della Repubblica Popolare Cinese. La crescita della produttività passerà attraverso due progetti ambiziosi: se da un lato One Belt One Road sarà “un modo per esportare la capacità produttiva cinese nei Paesi attraversati dalla nuova Via della Seta” – e non solo un mero progetto legato alle infrastrutture per agevolare i commerci -, dall’altro l’industria cinese sarà attraversata da un rinnovamento radicale e repentino in un’ottica 4.0, sotto la guida del piano Made in China 2025. Questo progetto, lanciato nel maggio del 2015, punta a trasformare la “fabbrica del mondo” cinese, un’industria contraddistinta per produzioni a basso costo e a basso valore aggiunto, in una fucina di innovazione, di produzioni automatizzate ad alto valore aggiunto e di tecnologie produttive avanzate.

La Cina in poche parole vuole cambiare faccia, rinnegando lo smog e lo sfruttamento, e proiettandosi in una nuova era industriale tout court.

Un rapporto della Camera di Commercio Europea in Cina ha analizzato il nuovo, ambiziosissimo progetto cinese, indicando che lo sviluppo molto modesto del settore R&D – 2% degli investimenti a livello nazionale – ha intrappolato l’abnorme macchina industriale cinese in un circolo vizioso. In futuro lo sviluppo economico dovrà fondarsi sull’innovazione se la Cina non vuole ritrovarsi con un’economia stagnante prima che la popolazione abbia raggiunto livelli di reddito medio pro capite sufficientemente elevati. Da qui la necessità di investire in un’industria innovativa che assicuri un futuro prospero e stabile. Nel frattempo il Paese deve cercare di “diventare ricco prima di ritrovarsi vecchio”. Il tempo corre veloce alle spalle del dragone: l’invecchiamento della popolazione e la diminuzione della forza lavoro disponibile – 3,7 milioni di unità in meno tra il 2013 e il 2014, con un ulteriore decrescita di 4.9 milioni tra il 2014 e il 2015 – minacciano la sostenibilità di un sistema pensionistico adeguato. Inoltre la Cina attualmente si trova a fare i conti con paesi emergenti che fondano la loro forza sulla manodopera a basso costo, mentre allo stesso tempo economie avanzate come USA, Germania e Giappone stanno già sviluppando politiche di sostegno allo sviluppo delle proprie industrie manifatturiere.

In questo contesto, l’automazione è un metro di comparazione importante. L’industria cinese non è molto sofisticata: per esempio le aziende cinesi non sono molto automatizzate e contano 49 robot ogni 10.000 lavoratori, mentre risulta lampante il divario con la concorrenza internazionale, dove la Corea è a quota 531, la Germania a 301, la Svezia a 212, e la Danimarca a 188 – l’Italia, situata tra Belgio e Spagna in graduatoria, si attesta attorno ai 160 robot. Così, i paesi occidentali sembrano inclini a riportare le produzioni in Europa e USA, dove le percentuali di automazione produttiva sono molto elevate.

È chiaro che il governo cinese ha sviluppato CM2025 per affrontare le sfide internazionali e intestine che l’industria manifatturiera sta incontrando. Ma a differenza di analoghi progetti di avanzamento tecnologico, il piano cinese riguarda la completa ristrutturazione dell’industria, con l’ammodernamento tecnologico che diviene soltanto uno dei tanti fattori coinvolti per renderla più competitiva. Come ha confermato lo stesso presidente Xi Jinping: “La capacità di innovazione indigena cinese, e in modo particolare quella originale, è ancora debole”. Ovvero, la dipendenza dalle tecnologie straniere in settori industriali chiave non permette ancora al Paese di trovare una sua via indipendente e “indigena”. L’obiettivo sarà quindi quello di rendere le aziende cinesi più competitive sui mercati globali, puntando sui settori tecnologicamente più avanzati.

Sono dieci i settori chiave che riceveranno un’attenzione speciale all’interno del programma: nuova information technology; macchine CNC e robotica; attrezzature aerospaziali; strumenti per ingegneria oceanica e imbarcazioni hi tech; materiale ferroviario; veicoli a risparmio energetico e a energia nuova; electrical equipment; nuovi materiali; medicina biologica e apparecchiature mediche; macchinari agricoli. Alcuni degli obiettivi principali a cui mira il progetto riguardano, per esempio, i componenti e i materiali di base, che dovranno essere prodotti in autonomia dalla Cina per il 40% nel 2020, e per il 70% nel 2025; o la riduzione del 30% dei costi di produzione per il 2020, che sale al 50% per il 2025. Da sottolineare anche l’obiettivo, buono a sapersi, della diminuzione delle emissioni di anidride carbonica del -22% nel 2020, fino a un -40% nel 2025.

Come sottolinea il Times in un articolo di qualche giorno fa, già prima della rivoluzione comunista la Cina era ossessionata dall’assorbire la tecnologia estera per porre fine a un secolo di umiliazione e restaurare la propria potenza nazionale. Ma non si può negare che CM2025 sia il progetto più ambizioso mai proposto dal governo cinese: un piano, di fatto, che si basa su una politica di industria nazionale che mira a formare un nuovo tipo di potere globale e influenza. “Se CM2025 raggiungesse i suoi obiettivi – ha commentato Jeremie Waterman, presidente del China Center alla Camera di Commercio degli USA – gli Stati Uniti e gli altri paesi probabilmente diventerebbero soltanto esportatori di materie prime verso la Cina – vendendo olio, gas, carne bovina e soia”. L’occidente riuscirà a tenere il passo del dragone in un mondo sempre meno eurocentrico e che ha ormai nel Pacifico il suo baricentro economico?

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