Per Patrick McGrath le emozioni sono roba da donne

Emozioni? Quali emozioni? Per Patrick McGrath sembra che esistano solo quelle degli altri

Ero davvero felice di avere l’occasione di intervistare Patrick McGrath. In macchina, mentre andavo all’Hotel de Milan dove lo avrei incontrato, piangevo. In treno, anche. Arrivo e sono il ritratto della gioia. Tensione? Quale tensione?

Le emozioni insomma non sono il mio forte. Per questo, da lettrice, le ho sempre ricercate nei libri, per capire come si facesse a provarle in modo vantaggioso. O a provarle e basta. Con in mente fisso questo punto, effimero se si pensa a quanto di solito un grande scrittore ha da dire, da questa prospettiva monomandataria, ho iniziato la mia breve chiacchierata con l’autore di Follia.

Pensavo che la gestione delle emozioni fosse una grande domanda per uno scrittore che nei suoi libri – compreso l’ultimo La guardarobiera, appena uscito per La nave di Teseo – indaga feralmente i meandri bui della psiche. La guardarobiera, ad esempio, è Joan, una donna persa nel dolore dopo la morte di suo marito, l’amato attore di teatro Charlie Grice. Il lutto rieccheggia con le sue note più tetre ed estreme, sfocia nella paranoia e nella persecuzione.

Leggere McGrath, poi, senza pensare a un dato della sua biografia che, quasi quasi, ci si augurerebbe di non conoscere, tanto è capace di influenzare la fantasia, lo trovo quasi impossibile. L’autore infatti trascorse l’infanzia tra i corridoi dell’ospedale psichiatrico criminale di Broadmoor, dove suo padre lavorava come primario.

In barba a ogni regola del prontuario del buon lettore e con tutti i principi filologici per cui deve essere solo l’opera a parlare, mi sono sentita ancora più legittimata a chiedergli delle emozioni. Tutto considerato, deve averne di scomode nel suo bagaglio.

Come le gestisce, come va a pescarle, come riesce a farle infuriare sulla pagina senza venirne sopraffatto, come ne ammaestra l’intensità? Non ne ha paura?

Ho incontrato un muro di gomma. Un corterse, compiaciuto, britannicamente umorista, muro di gomma.

(P.M:) “Tocco ferro, e probabilmente non dovrei dirlo per non tentare la fortuna, ma…”

(F.) “No ok, allora non lo dica, non si preoccupi.”

(P.M.) “No, no, lo voglio dire! Non mi è mai capitato di rimanere sopraffatto dalle emozioni, non sono mai annegato in una mia storia. Sa, per i miei libri studio molto…”

(F.) “Certo, la ricostruzione storica de La guardarobiera è nitidissima, così come il ritratto del mondo teatrale…”

(P.M.) “Per quello mi ha aiutato mia moglie (n.d.r. l’attrice irlandese Maria Aitken). No, intendevo che studio moltissimo per parlare di emozioni. Ad esempio, non sapevo nulla di come una donna affronti il lutto, niente. Ho dovuto leggere un sacco e alla fine, credo che lei se ne sia accorta, ho imparato tutto da L’anno del pensiero magico di Joan Didion”.

Emozioni? Quali emozioni? Per Patrick McGrath sembra che esistano solo quelle degli altri. E se si considera che per lui, da bambino, mentre si formava l’immagine del mondo, gli altri sono stati principalmente pazzi criminali, forse questa deferenza assume un senso.

La fatica nell’avvicinarmi all’argomento emotivo mi ha fatta quasi desistere. Le distanze che McGrath prende dal sentire personale e personalistico sono magistrali e, probabilmente, sono anche il segreto del suo successo.

Comunque, non del tutto paga della doccia fredda, con un ultimo fendente, ho riprovato a farlo cadere nel romanticismo del raccontarsi. Volevo strappargli almeno un accenno metaletterario su se stesso, tanto era già palese, ben prima dell’intervista, che McGrath fosse uno di quelli bravi per davvero, che quando scrive, scrive capolavori. Non mi volevo arrendere al tornare a casa con un immaginario non condiviso per cui, più che la Londra del ’47 martoriata dai bombardamenti del suo ultimo successo, quando guardo Patrick McGrath riesco solo a vedere la Londra degli asylum. Ho trattenuto il respiro e gliel’ho chiesto.

(F.) “Senta, ma lei ha mai guardato Penny Dreadful?”

(P.M.) “Oh, la serie? Quella della Londra vittoriana?”

(F.) “Esatto, proprio quella!”

(P.M.) “No, ne ho solo, lontanamente, sentito parlare”.

Ma certo Mr McGrath, certo.

Dopotutto, se mi avesse risposto di sì, che cosa sarei andata a dirgli? Che il personaggio che più ho amato in Penny Dreadful, Mr John Clare, l’immortale che si ritrova a lavorare in un manicomio per salvare il figlio dalla tisi, mi ricorda lui e il rapporto di certo difficile che deve avere avuto con il padre? E che sono sicura che sia in realtà questo il pozzo profondo da cui va a prendere tutto il dolore e il buio che racconta?

Non credo ne avrei avuto il fegato. Così come non ho avuto il fegato di dirgli che no, di Joan Didion non me n’ero accorta.