TaccolaPiccole e medie imprese, c’è stata una rivoluzione e non ce ne siamo accorti

I dati dell’Osservatorio Pmi del Cerved dicono che anche le piccole imprese stanno tornando, per numero e salute, ai livelli precedenti al 2007. Salgono finalmente anche gli investimenti e il sistema si scopre molto meno bancocentrico

Gopen RAI / AFP

Fuscelli nella tempesta, sommersi dalla crisi, strozzati dal credit crunch, inghiottiti dalla globalizzazione. Così sono state descritte per anni per piccole e medie imprese italiane. Di motivi ce n’erano. Con una domanda interna prosciugata, la competizione sui mercati internazionali feroci, la necessità di fare investimenti non rinviabile pena una perdita di produttività fatale, tutto sembrava far pensare che di spazio per le aziende con meno di 250 dipendenti non ce ne fosse più. I dati del Rapporto Cerved Pmi 2017 impongono però una riflessione, perché il quadro che dipingono è di una svolta radicale, una piccola rivoluzione in positivo che non è stata ancora colta a livello mainstream.

Nel quadro scopriamo che ricavi e margini sono saliti, è ricresciuto il numero delle imprese, ne è calata drasticamente la mortalità, è invece salita la liquidità, la capacità di autofinanziamento, la solidità finanziaria, mentre si sono ridimensionati i tempi di pagamento dei fornitori e i tassi di ingresso in sofferenza. Sono anche tornati gli investimenti, ancora prima degli incentivi del Piano Industria 4.0 e le previsioni sono di un rafforzamento di tutti i parametri in maniera robusta da qui al 2019 (si veda la tabella qui sotto), anche grazie alla ripresa della domanda interna e di settori fin qui moribondi come le costruzioni.

Rimangono però dei problemi di competitività rispetto alle aziende maggiori, soprattutto per quanto riguarda il costo del personale rapportato alla produzione. Né ci si può illudere che tutto questo non dipenda da fattori contingenti, come il Qe e i tassi bassi, che hanno fatto crollare i costi dell’indebitamento, e come la ripresa nel resto d’Europa. Per questo sono da guardare con grande attenzione le imprese che, pur piccole o medio, stanno sapendo investire molto e nei settori più innovativi, perché è a queste imprese – neanche troppo residuali – che ci si dovrà aggrappare alla prossima grande crisi.

Vediamo solo alcuni tra le migliaia di dati presenti nel Rapporto Cerved. È innanzitutto finita l’era della grande selezione, che aveva contraddistinto tutto il periodo post-crisi. Dal 2007 a oggi le Pmi erano scese da 150 a 136mila, oltre il 10% in meno. Nel 2015 la prima risalita, nel 2016 un piccolo boom (5mila nuove imprese) che ha riportato il totale a 145mila.

Cosa ha determinato questa inversione di tendenza? Da una parte c’è una crescita delle microimprese (+9,7%), che tendono peraltro ad aumentare la propria scala dimensionale fino a superare le soglie dei 10 addetti. Sono in gran Srl Semplificate, una forma giuridica che sta soppiantando le tradizionali società a nome collettivo. Molto però ha pesato il fatto che la mortalità ha avuto una vera frenata. Il calo di fallimenti sta accelerando: -7% nel 2015 rispetto all’anno prima, -14,8% nel 2016, -21% nel primo semestre del 2017. Al termine di quest’anno secondo il Cerved il tasso di mortalità sarà su livelli inferiori a quelli pre-crisi. Allo stesso modo sono molto meno le procedure concorsuali, come i concordati preventivi.

È innanzitutto finita l’era della grande selezione, che aveva contraddistinto tutto il periodo post-crisi

Naturalmente tutto questo deriva da un miglioramento delle performance economiche, che solo ora stanno raccogliendo i frutti di una inversione di tendenza iniziata precedentemente. Spiega il Cerved che il 2016 è il quarto anno consecutivo in cui si assiste a chiari segnali di miglioramento dei bilanci. Nel 2016 i ricavi sono saliti in media, per le Pmi, del 2,6 per cento. Il valore aggiunto del 4,4%, in accelerazione rispetto all’anno precedente. Stesso discorso per i margini operativi lordi, saliti per il complesso delle Pmi del 3,6%, anche se, spiega ancora il rapporto, la spinta è arrivata soprattutto dalle medie imprese, non dalle piccole. La redditività è in continua salita e il Roe ha toccato quota 10,2%, superiore per le Pmi rispetto alle grandi imprese e non lontanissima dal 13% pre-crisi.

Dal rapporto scopriamo che ricavi e margini sono saliti, è ricresciuto il numero delle imprese, ne è calata drasticamente la mortalità. Sono invece salite la liquidità, la capacità di autofinanziamento, la solidità finanziaria, mentre si sono ridimensionati i tempi di pagamento dei fornitori e i tassi di ingresso in sofferenza

La ripresa delle Pmi ha basi finanziarie e reddituali molto solide”, recita uno dei paragrafi del rapporto e lo si capisce guardando il rafforzamento del capitale proprio delle Pmi (+4,9% nel 2016). «Questa crescita del capitale è una tendenza consolidata – si legge – che nel corso del decennio ha fortemente trasformato la struttura finanziaria delle Pmi: il rapporto tra debiti finanziari e capitale netto si è ridotto di quasi 40 punti tra il 2007 e il 2016, passando dal 115 al 76 per cento».

I debiti, si aggiunge, sono più sostenibili e gli oneri finanziari pesano meno rispetto al Mol, grazie alla crescita della redditività e ai tassi di interesse in calo. «Debiti più sostenibili sono accompagnati da una crescente capacità delle Pmi italiane di generare liquidità: il cashflow ha raggiunto nel 2015 il 6,2% dell’attivo, il livello più alto dal 2007».

Oltre la metà delle Pmi analizzate dal Cerved hanno un bilancio classificato come “solvibile” solo il 14% come rischioso. Rimane comunque il dubbio se questa tendenza all’autofinanziamento sia volontaria o risultato del credit crunch bancario. Di certo, nota il Rapporto, una piccola impresa considerata “sana” secondo gli score di Cerved ha un costo del credito pari a quello di una media imprese “rischiosa” e molto più alto di una grande impresa “rischiosa”.

La crescita del capitale proprio è una tendenza consolidata – si legge nel rapporto – che nel corso del decennio ha fortemente trasformato la struttura finanziaria delle Pmi: il rapporto tra debiti finanziari e capitale netto si è ridotto di quasi 40 punti tra il 2007 e il 2016, passando dal 115 al 76 per cento. Anche perché per le piccole imprese il credito costa ancora molto di più che per le grandi imprese

Tra i dati che fanno meglio sperare sull’effettiva robustezza di questa ripresa c’è quello degli investimenti. Il rapporto degli investimenti rispetto alle immobilizzazioni materiali è salito in un anno dal 6,2% al 7,8 per cento. È una tendenza che è forte soprattutto nelle imprese ad alta automazione e il dato è significativo perché non conta ancora gli effetti degli incentivi del Piano Industria 4.0, che invece si sentirà nei bilanci 2017.

Partendo proprio dalle potenzialità del Piano Calenda, il Cerved divide le imprese in diverse categorie in base al grado di investimenti in innovazione. I risultati sono interessanti perché non scontati. Le Pmi ad alta automazione sono più produttivie e hanno una redditività doppia rispetto a quelle più tradizionali. Ma le società che hanno investito molto in innovazione (le “aquile” secondo la classificazione del rapporto) hanno anche profili più rischiosi della media. «L’innovazione è rischiosa ma quando ha successo fa crescere le imprese», sintetizza il rapporto. C’è però un’ombra sui lavoratori di queste imprese. Se è vero che, quando rimangono a casa, trovano molto prima degli altri un nuovo lavoro, è anche vero che hanno dei salari bassi, nonostante la produttività delle imprese sia alta. Da qui i due suggerimenti di policy del Cerved: da una parte concentrare le politiche pubbliche su un sistema di tutela dei lavoratori che permetta la transizione tra diverse imprese nell’arco della carriera lavorativa (secondo una logica di flexsecurity). Dall’altra una riflessione sul tipo di contrattazione, in modo da favorire retribuzioni allineate agli andamenti dell’impresa.

Le società che hanno investito molto in innovazione hanno più redditività ma anche profili più rischiosi della media. E c’è un’ombra sui lavoratori di queste imprese. Se è vero che, quando rimangono a casa, trovano molto prima degli altri un nuovo lavoro, è anche vero che hanno dei salari bassi, nonostante la produttività delle imprese sia alta

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