Abbattere il debito pubblico italiano: solo così si può salvare l’Europa

Mentre noi ci guardiamo l’ombelico in vista della campagna elettorale, in Europa la sfiducia nella politica genera mostri. L’unico modo per invertire la rotta? Prendersi ognuno le proprie responsabilità. A partire da noi e dal nostro debito pubblico

Si preparano scelte cruciali per l’Eurozona, ma il nostro discorso politico continua a rimirarsi l’ombelico. Intanto si pensa altrove, e non solo in Germania, a ristrutturare “in automatico” i debiti pubblici e ad imporre requisiti di capitale (oggi non previsti) sui titoli di Stato detenuti dalle banche; tale misura, se adottata nella sola Eurozona, la penalizzerebbe rispetto agli Usa, dice il presidente della Bce, Mario Draghi. Ciò equivarrebbe a trattare il debito pubblico alla stregua di qualsiasi corporate bond, e a dire ufficialmente a tutti di prepararsi a subire su quei titoli ampie tosature. Sarebbe questo un azzardo sconsiderato: sui mercati finanziari le ipotesi si autoavverano, additare una debolezza è un modo in più per veder arrivare i predatori.

La sfiducia fra Stati dell’Eurozona fa sì che ci si affidi a regole automatiche, il cui funzionamento dipende da movimenti nei prezzi stabiliti dagli umori dei mercati; ai mercati la politica demanda le scelte che essa non osa fare. Né serve dire che le regole varranno solo fra 5 anni; elevati da quella sfiducia a soli giudici disinteressati, competenti e onniscienti, i mercati ne sconteranno gli effetti ben prima.

Tocca invece alla politica sciogliere le tensioni legate all’incompiutezza dell’euro, a partire da quelle sull’unione bancaria; altrimenti si riaccenderà il nazionalismo, lo spettro che dietro il populismo rialza la testa. Decidiamoci alfine ad auscultare il respiro profondo della Storia, che dalla caduta del Muro batte ovunque – prima piano, poi forte, sempre più forte – l’avanzata del nazionalismo: lo fa negli Usa che eleggono Trump contro i due grandi partiti, nel Regno Unito che si isola dalla Ue, nei venti di autocrazia in arrivo dall’Oriente, prossimo e remoto.

In mezzo ai nazionalismi imperanti, ormai si trova in Europa la sola grande entità politica che vuole combinare e conciliare le aspirazioni di diverse nazioni, in vista del loro interesse comune. Le guerre del ‘900 svaniscono però dalla memoria di tutti, l’ispirazione europea originaria si affievolisce vieppiù; lo segnala l’avanzata dei nazionalisti in tanti Stati membri, e non solo fra i Quattro di Visegrad. Dopo le sue elezioni settembrine, anche la Germania ne fa aspra esperienza. Ora lo stallo nelle trattative per il governo tedesco complicherà tutto; il solo ad intendere la minaccia nazionalista pare il nuovo presidente francese.

Essa allenta i vincoli di solidarietà, inasprisce i rapporti, abbassa e svilisce i dibattiti politici interni; fa bene Draghi a lamentare la tendenza dei media di diverse nazioni a distorcere faziosamente i fatti. Nazionalismo è allora la pretesa, nostra, di scaricare i debiti su altri senza pagar pegno, così come quella, tedesca, di continuare a sfruttare la paura degli investitori sulla solvibilità degli Stati più indebitati (quorum et nos), per ridurre sempre più il costo del Bund tedesco.

È ben nostra la responsabilità di un debito monstre acceso, disse Nino Andreatta, non per investire sul futuro, ma per cenare in pizzeria. Sarebbe irrealistico chiederlo ora, ma dopo le elezioni chi andrà al governo dovrà pur prendere in mano quella patata bollente

Bisogna davvero alzare i toni dei discorsi politici interni; a noi tocca ammettere la grave responsabilità di un debito enorme, così grande da essere la maggior minaccia alla sopravvivenza della Ue. Non basta dire che che noi una buona riforma delle pensioni l’abbiamo già fatta, a differenza di tanti, Germania inclusa; tanto più se un’elezione imminente può già minacciare il pilastro portante della riforma Fornero. Inutile è anche rilevare che il totale dei nostri debiti (pubblici e privati) è inferiore a quello di altri Paesi (350% del Pil contro il 400% della Francia, con tutto il suo rating tripla A), o che la nostra ricchezza finanziaria sfiora i 4000 miliardi di Euro (la cifra però include le partecipazioni in imprese, quotate e no).

Tale ricchezza è in verità un ostacolo alle ipotesi di condivisione dei debiti, giacché essa segnala la nostra autonoma capacità di abbatterli; è poi facile arguire che essa è, in parte non piccola, sottratta al fisco, in quanto contropartita contabile, e causa, di maggior debito pubblico.

Quando cantiamo il nostro inno nazionale, retorico come ogni inno, e ci stringiamo “a coorte, siam pronti alla morte”; la generazione di chi scrive è stata la prima, dopo molte, a non affrontare davvero quel rischio in guerra. Ne porta tutto il merito l’Unione Europea, per la sopravvivenza della quale oggi rischiamo, ben lungi dal morire, solo di dover far fronte a sgraditi esborsi straordinari; è ben nostra la responsabilità di un debito monstre acceso, disse Nino Andreatta, non per investire sul futuro, ma per cenare in pizzeria.

Sarebbe irrealistico chiederlo ora, ma dopo le elezioni chi andrà al governo dovrà pur prendere in mano quella patata bollente. Matureranno allora scelte ineludibili, se vogliamo sbloccare la chiusura che troviamo su tanti fronti: dalle migrazioni, al completamento dell’unione bancaria con l’assicurazione europea sui depositi, a programmi europei per l’occupazione, all’Europa a due velocità, etc.. Solo nostre decisioni eccezionali potranno sbloccare quelle altrui che dovranno essere altrettanto straordinarie; solo così si potrà rilanciare la solidarietà nell’Eurozona. Se queste decisioni eccezionali ci fanno troppa paura, basta guardare in faccia l’alternativa.

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