TaccolaAltro che Ferrari: esportiamo furgoni, camion e trattori (ed è boom)

L’Italia in questi anni si è fermata, il mondo no: così grazie all’export i veicoli per uso industriale e professionale hanno continuato a crescere e a investire. Entro il 2030 opportunità da 20 miliardi dall’export. Lo racconta uno studio di Deloitte

FRANK PERRY / AFP

Segnatevi questa annata: il 2012. È l’unico anno in cui il settore dei veicoli professionali e industriali ha segnato una discesa dei fatturati, nel periodo che va dal 2010 al 2016. Segnatevi anche questi altri due numeri: 14,7 miliardi di euro fatturato nel 2010, 20,6 miliardi attesi nel 2017. Sono le coordinate che permettono di inquadrare quella che è stata una crescita silenziosa ma continua, quella dell’“altro automotive”, ossia di tutti quei mezzi di trasporto che servono a imprese e professionisti per muoversi, escluse le auto aziendali.

A questa filiera dell’industria italiana ha dedicato un lungo studio la società di consulenza Deloitte, chamato “Ruote che lavorano”. I verdetti sono diversi. Il più chiaro di tutti è che, mentre l’Italia stava in ginocchio, vedeva ridursi di un quarto la produzione industriale e fermarsi le costruzioni, il resto del mondo continuava a correre. E, seconda notizia, le nostre imprese sono state in grado di prendere quelle opportunità, arrivando a far pesare l’export per due terzi del fatturato. Secondo lo studio, inoltre, il bello deve ancora venire, perché entro il 2030 Deloitte prevede che il commercio mondiale rappresenterà un’opportunità annua da 20,7 miliardi di euro, più o meno l’intero valore della filiera stimato nel 2017. Le previsioni per il settore sono di una crescita di poco superiore al Pil mondiale.


Mentre l’Italia stava in ginocchio, vedeva ridursi di un quarto la produzione industriale e fermarsi le costruzioni, il resto del mondo continuava a correre. Le nostre imprese sono state in grado di prendere quelle opportunità, arrivando a far pesare l’export per due terzi del fatturato

Non sono dinamiche solo italiane. Se si vanno a vedere i confronti europei tra il 2010 e il 2016 si vede una crescita molto superiore per i veicoli commerciali e professionali (chiamati Piv nello studio) rispetto a quella delle automobili. Ma cosa è cresciuto? Soprattutto i furgoni leggeri e i camion pesanti. Le spiegazioni sono diverse. Tra le più suggestive ci sono quelle che legano il maggior ricorso ai furgoni all’esplosione dell’e-commerce, alimentare e non. Per quanto riguarda i camion, invece, c‘è stato un robusto incremento di quelli più pesanti a discapito di quelli di medio tonnellaggio, a causa di un maggior efficientamento della logistica che ha portato a ridurre gli spostamenti medi a favore di tratte più lunghe. Si segnala anche un risveglio del settore dei bus e in particolare di quelli che fanno servizio di trasporto a lunga percorrenza, testimoniato dall’affermazione di società di trasporti come Flixbus, che conta ormai 120mila connessioni al giorno per mille destinazioni. Per questo tipo di mezzi di trasporto lo studio prevede un’accelerazione nei prossimi anni. Insomma, mentre le persone si disamorano delle auto (ogni anno percorriamo in media 100 chilometri in meno dell’anno precedente), le aziende non possono fare a meno dei veicoli industriali.

Cos’è cresciuto? Soprattutto i furgoni leggeri e i camion pesanti. Le spiegazioni sono diverse. Tra le più suggestive ci sono quelle che legano il maggior ricorso ai furgoni all’esplosione dell’e-commerce, alimentare e non. Si segnala anche un risveglio del settore dei bus e in particolare di quelli a lunga percorrenza, testimoniato dall’affermazione di società di trasporti come Flixbus

Li vogliono, però, sempre più tecnologicamente avanzati, con una fame di innovazione maggiore che per le auto. Lo spiega Giuseppe Russo, fondatore di Step Ricerche e co-autore dello studio (con Elisa Cerruti, esperta di analisi di mercato, e con il coordinamento del partner di Deloitte Giorgio Barbieri). «I mezzi sono oggetto di una continua evoluzione tecnologica, perché davanti a tutto c’è il principio di costo e di efficienza, non filtrato dai gusti delle persone – commenta il fondatore di Step Ricerche -. Il trattore a guida autonoma, per fare un esempio, è già una realtà», in cui nessuno sale sul mezzo, che al più è controllato a bordo campo da un operatore. Questi mezzi, aggiunge, sono particolarmente complicati, sono composti da circa 50mila componenti e questo, allo stato attuale, rappresenta una barriera all’ingresso non indifferente per i Paesi a bassa o recente industrializzazione.

A trascinare il settore sono soprattutto le “teste di filiera”, grandi aziende che concentrano la maggior parte del fatturato: il primo 20% delle imprese per ricavi consegue l’80% del fatturato dell’industria. In Italia c’è storicamente l’Iveco, ora Cnh (gruppo Fca), ma anche la Psa (per i veicoli commerciali). Il conteggio delle imprese arriva però a 883, tra componentisti di vario tipo e progettisti. Oltre la metà sono concentrate tra Lombardia – prima per distacco -, Emilia Romagna e Piemonte. Sono soprattutto abbastanza piccole. L’azienda mediana del settore espone ricavi (2015) per 7,6 milioni di euro, con un Ebitda di 541mila euro, pari al 7,1 per cento. Il nanismo di queste imprese è il principale limite del settore. Negli anni la marginalità e la redditività siano andate migliorando: l’Ebitda margin è passato in 5 anni dal 6,4% al 9,4%, per effetto di maggiore produttività del lavoro salita del 2,4% all’anno (+3% quella del capitale). Tale dinamica, tuttavia, «è stata sufficiente per ammortizzare gli investimenti ma non per determinare una crescita dimensionale. Questa si è ottenuta solo in due modi: con fusioni o con operazioni finanziarie straordinarie», spiega Russo. Le pratiche aziendali e le politiche pubbliche volte a ridurre la distanza tra l’ambizione di crescere e la possibilità di farlo «dovrebbero occupare i primi posti dell’agenda strategica della “Piv Chain”», si legge nello studio. Da un’indagine empirica condotta sul 15% delle imprese della filiera è emerso infatti che la crescita favorisce le imprese più strutturate e a essere premiate sono soprattutto le aziende appartenenti a gruppi europei.

Le aziende della filiera sono 883, tra componentisti di vario tipo e progettisti. Oltre la metà sono concentrate tra Lombardia – prima per distacco -, Emilia Romagna e Piemonte. Sono soprattutto abbastanza piccole. Il nanismo di queste imprese è il principale limite del settore

La buona notizia, tuttavia, è che i livelli di ricerca e sviluppo e di investimenti sono superiori alla media dell’industria italiana. Il settore investe il 15% del valore aggiunto, tre punti percentuali in più dell’industria nel suo complesso. Ora la sfida, oltre che quella di sempre economica, si allarga anche alle componenti ambientali, come ha mostrato al mondo la presentazione del “semi-truck” elettrico di Tesla. Altre case automobilistiche puntano invece sull’idrogeno (come Toyota) o sul biometano (come Iveco). Di certo è un tema che non riguarda solo i produttori di veicoli commerciali e industriali, perché il 90 per cento delle merci prodotte in Europa viaggia o ha viaggiato su un mezzo pesante.

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