Avevano promesso un’uscita dall’Unione europea rapida, semplice e conveniente. Avevano dipinto al mondo e a se stessi l’immagine di una Global Britain più forte fuori dal mercato unico. Una nuova Hong Kong libera di fermare l’orda di migranti europei e padrona del proprio destino, senza pagare nemmeno una sterlina in più a Bruxelles il giorno dopo il referendum. Addirittura avevano scritto sulla fiancata di un pullman che il Regno Unito avrebbe avuto a disposizione 350 milioni di sterline a settimana da spendere per la sanità pubblica. Dopo 18 mesi, due governi, l’aumento dell’inflazione, un’economia stagnante e un’elezione anticipata che ha regalato meno seggi e più incertezza al governo di Theresa May, il mondo ha scoperto ieri il bluff dei conservatori inglesi: la Brexit è una bufala.
Partiamo dai soldi. È dai tempi di I want my money back di Margareth Thatcher che il Regno Unito lamenta i troppi soldi dati a Bruxelles. L’Unione europea chiedeva 60 miliardi fino al 2020, May ne aveva offerti 20 nel discorso di Firenze, causando le ire di Boris Johnson e Michael Gove. I due leader della campagna per il Leave avevano promesso di lasciare l’Europa senza pagare un penny. Ora Londra sarebbe disposta a versare una cifra tra i 45 e i 50 miliardi di euro (sì, euro e non sterline) grazie alla posizione dura e coesa di Bruxelles nel negoziato.
Stesso discorso per quanto riguarda l’immigrazione. I cittadini Ue residenti nel Regno Unito avranno gli stessi diritti dei sudditi di sua maestà, compresi gli idraulici polacchi, i camerieri italiani e i dottori tedeschi, accusati dai brexiteers di rubare il lavoro ai giovani inglesi.
Promesse elettorali a parte, ieri ilministro per la Brexit David Davis ha ammesso davanti alla commissione parlamentare che il Governo non ha effettuato una “valutazione d’impatto generale” su come l’uscita dall’Unione europea influenzerà l’economia del Regno Unito. Il problema non è aver commissionato solo dei report su settori specifici o non ritenere necessario un dossier generale; ogni governo ha il diritto di fare le proprie valutazioni e di risponderne davanti agli elettori.
Senza contare che molte relazioni sugli impatti economici si sono rivelate sbagliate negli ultimi anni. Il problema è aver promesso fino a una settimana fa di averne fatti almeno 50 assicurando l’opinione pubblica inglese di avere la situazione sotto controllo. Per questo il parlamentare laburista Chuka Umunna, considerato da molti il futuro leader del Labour post Corbyn ha chiesto di aprire un contempt proceeding – una sorte di procedura per oltraggio – per aver mentito al Parlamento.
Per dare un’idea dell’approccio superficiale ai limiti del dilettantismo, addirittura il ministro delle finanze Philipp Hammond, ha dichiarato ieri che il Consiglio dei Ministri inglese non ha ancora avuto una discussione approfondita su quale dovrebbe essere la “posizione finale” preferita dal governo dopo la Brexit. Dopo 18 mesi, non 18 ore o 18 giorni, il governo che deve affrontare il problema politico più importante dalla seconda guerra mondiale non è riuscito a trovare un accordo su cosa fare dopo l’uscita dall’Unione europea. Senza contare che secondo Bloomberg, Boris Johnson e Michael Glove sarebbero a capo di una fronda interna per sostituire Theresa May.
«Brexit significa Brexit» promise Theresa May fin dal primo giorno come capo dei conservatori. Ma in questo anno e mezzo la sensazione è quella di un governo senza un’idea che s’inventa una soluzione giorno per giorno. Una Brexit al fumo di Londra. Per arrivare alla seconda fase dei negoziati Londra doveva trovare un accordo con gli altri 27 stati Ue su tre temi: finanziamento del budget comunitario fino al 2020, diritti dei cittadini europei residenti nel Regno Unito e un accordo certo sull’unico confine terrestre con un Paese dell’Unione: quello tra Irlanda, stato indipendente dal 1922, e Irlanda del nord, una delle quattro nazioni del Regno Unito.
Sul confine nordirlandese la propaganda pro Brexit ha poca efficacia. Non si parla di soldi o lavoratori su cui si possono fare promesse generiche senza paura di essere smentiti. Parliamo di un confine vero, dove passano migliaia di persone e merci, lungo 499km. Dopo 30 anni di scontri e 3600 morti causati dagli attentati terroristici, gli indipendentisti cattolici e i protestanti unionisti nordirlandesi hanno raggiunto nel 1998 il Good Friday Agreement che ha portato alla demilitarizzazione e pacificazione dell’area.
Con il Regno Unito e Irlanda già nell’Unione europea dal 1972 il confine è quasi sparito: niente più dogane o dazi. L’unico a non aver firmato il Good Friday Agreement è stato il partito unionista democratico nordirlandese (Dup), da sempre favorevole a rimanere all’interno del Regno Unito in qualsiasi caso. Dopo le elezioni anticipate di giugno il Dup è diventato il piccolo ma decisivo alleato di governo dei conservatori, senza di loro Theresa May non potrebbe governare.
Come ogni alleato di governo in cambio del sostegno pretende concessioni politiche. Una di queste è non avere nessun regime speciale che la renda un’eccezione rispetto a Scozia, Galles e Inghilterra. L’accordo di lunedì tra Theresa May e il presidente della Commissione europea Jean Claude Juncker prevede invece Belfast ancora nel mercato unico europeo per evitare problemi alla dogana. L’uovo di colombo per May, un incubo politico per la leader del Dup Arlen Foster che ha fatto saltare l’accordo. Gli unionisti non sono contrari a continuare a commerciare senza dogane con l’Irlanda; per loro rimanere nel mercato unico ed essere l‘eccezione vorrebbe dire avere un regime commerciale differente con il resto del Regno Unito. Sarebbe un disastro per l’economia nordirlandese avere continui controlli nei prodotti che vanno da Belfast a Liverpool e viceversa.
È incredibile come il governo inglese non abbia previsto questo scenario. Almeno da giugno tutti conoscevano la posizione del Dup e nonostante questo May ha forzato il negoziato. Ora, la premier avrà meno di una settimana per trovare un accordo che accontenti tutti: l’area più intransigente del suo partito, il Dup e l’Unione europea.
Ironia della sorte, il sindaco di Londra Sadiq Khan e la premier scozzese Nicola Sturgeon hanno chiesto lo stesso trattamento dell’Irlanda del nord. Anche loro vogliono essere inserite all’interno del mercato unico. E per non farsi mancare nulla anche il Galles, che ha votato a maggioranza per uscire dall’UE non vuole essere esclusa. Ricapitolando: se la Scozia, Londra, Galles e Irlanda del Nord rimanessero nel mercato unico per non creare disparità di trattamento, l’Inghilterra senza capitale rimarrebbe da sola fuori da tutto?
Più tempo per risolvere il problema del confine, meno tempo per discutere il succo del negoziato: le future relazioni commerciali tra Londra e Bruxelles. Tradotto: l’accesso o meno al mercato unico. Anche qui, un’altra bufala dei pro Brexit. Durante la campagna elettorale per il referendum l’ex leader dello Ukip Nigel Farage e l’attuale ministro degli Esteri Boris Johnson avevano promesso di voler uscire dal mercato unico. Ovvero abbandonare 500 milioni di consumatori.
Dopo il rifiuto di Giappone e Stati Uniti a stipulare un accordo commerciale prima della fine dei negoziati Brexit e aver visto che un nuovo Commonwealth non sarebbe così conveniente, molti hanno ipotizzato di poter rimanere nel mercato unico. Quindi dopo aver promesso la sovranità agli elettori, il Regno Unito nella migliore delle ipotesi dovrebbe rispettare le norme europee senza avere il potere di cambiarle; nella peggiore non avrebbe alcun accordo.
Il tempo scorre e il marzo 2019 non sembra più così lontano. Un accordo mancato potrebbe essere lo scenario più probabile ma meno conveniente per il Regno Unito. Secondo un report del senato inglese un mancato accordo potrebbe danneggiare l’economia ma anche settori come la difesa, l’antiterrorismo e la sicurezza nucleare, progetti cruciali per la sicurezza finora finanziati e gestiti con gll altri 27 Stati Ue. Il 23 giugno del 2016 il 52% degli elettori inglesi ha votato per lasciare l’Europa. Ieri, secondo un sondaggio riportato dall’Irish Times, sempre il 52% degli inglesi pensa che il Regno Unito farà un pessimo accordo. Ma per scoprire un bluff, non servono sondaggi.