TaccolaDall’Europa uno schiaffone a Uber (che però ora può risorgere)

Finalmente finisce un tira e molla di anni: Uber, dice la Corte di giustizia europea, fa un servizio di trasporto. La piattaforma dovrà cambiare tutto ma paradossalmente potrebbe rientrare nei Paesi da dove è uscita. La palla passa alla politica, che in Italia può cambiare una legge del 1992

Daniel LEAL-OLIVAS / AFP

Quello di mercoledì 20 dicembre non è stato certamente un bel giorno per Uber. La Corte di giustizia dell’Unione europea ha stabilito con una sentenza che Uber Pop, la variante che ricorre ad autisti non professionisti, va considerato un servizio di trasporto pubblico non di linea e non una piattaforma digitale, come l’azienda sostiene da tempo. Le conseguenze di questa decisione sono dirompenti: vanno dalla necessità di adeguarsi alle norme previste dalla legge per il settore (in Italia vige una legge del 1992) agli effetti, prevedibili, sul lavoro e sulle tasse. Ma paradossalmente la sentenza, attesa da ormai due anni, potrebbe avere anche dei risvolti positivi per la società di San Francisco, che dal 2015 ha visto bandito in Italia, come in altri Paesei, il proprio servizio Uber Pop. Ne sono convinti Antonio Aloisi, dottorando in diritto del lavoro all’Università Bocconi, e Valerio De Stefano, docente di diritto del lavoro all’Università di Lovanio, in Belgio. «Si può dire che la Corte ha risolto una profonda ambiguità – spiegano -. Il fatto che ora sia accertato che Uber sia una società di trasporto e non della cosiddetta società dell’informazione, letto in positivo contiene anche una buona notizia per gli operatori di settore. Si può tornare a discutere se i regolamenti esistenti siano obsoleti oppure no. Ci si può chiedere se una legge scritta nell’epoca pre-digitale sia oggi al passo con i tempi».

La palla quindi passa in primo luogo alla politica, che, tuttavia, ricordano i ricercatori, «purtroppo in questi anni ha avuto un approccio timido e contraddittorio. Ci sono state fughe in avanti e clamorose ritirate». Era il maggio 2014, vale la pena ricordarlo, quando l’ex presidente del Consiglio Matteo Renzi dichiarava, dopo giorni di sciopero dei tassisti contro Uber Pop: «Uber è un servizio straordinario, l’ho provato a New York, ne parleremo la prossima settimana», riferendosi ai lavori per la regolamentazione del settore. Poi la vittoria degli stessi tassisti fu totale. Nel ddl concorrenza approvato nei mesi scorsi, tuttavia, il governo è stato delegato dal Parlamento ad adottare entro un anno un decreto legislativo per la revisione della disciplina in materia di autoservizi pubblici non di linea, come Uber e Ncc (noleggio con conducente).

Dopo la sentenza della Corte con sede in Lussemburgo c’è quindi una finestra di opportunità per intervenire a bocce ferme. Si potrebbe ripartire dagli accordi che sono stati trovati negli ultimi anni in altri parti d’Europa. In Belgio, ricordano i due studiosi, già prima della decisione della Corte di giustizia dell’Ue si era trovata una via per regolare l’attività di Uber Pop: agli autisti sono stati richiesti gli stessi requisiti dei guidatori di Ncc, che nel caso belga, sono limitati a un semplice patentino. Diversa è anche la regolamentazione, dato che in Italia sono previsti molto stringenti sull’attività degli stessi Ncc (luogo di partenza e corse).

Dunque Uber Pop è ufficialmente un servizio di trasporto pubblico non di linea e non una semplice piattaforma digitale. Dovranno cambiare molto probabilmente gli aspetti contrattuali e le tasse pagate nei vari Paesi. Però, ora che le bocce sono ferme, si apre anche l’opportunità di cambiare le regole del settore. In Italia vige una legge del 1992 e il ddl concorrenza stabilisce che entro un anno le norme vanno riscritte

Molto però dovrà cambiare anche Uber. Per rendersene conto basta ricordare che il cuore della sentenza della Corte di giustizia è che la società esercita un potere organizzativo su aspetti come i prezzi, gli orari di lavoro e le condizioni del veicolo e del servizio e, non da
ultimo, gli stessi autisti (che possono anche essere esclusi dalla piattaforma), in modo che il servizio stesso risulti standardizzato. A questa conclusione era arrivata lo scorso maggio l’opinione dell’Avvocato generale della Corte, dopo una lunga analisi del modello di business della società.

Sebbene la sentenza non si sia occupata di diritto del lavoro, aggiungono Aloisi e De Stefano, se il servizio fondamentale offerto è quello di trasporto e se i lavoratori concorrono all’erogazione del servizio, il potere organizzativo della piattaforma si estende anche ai lavoratori. Il passo logico è breve, il potere organizzativo è decisivo per distinguere tra la lavoro subordinato e autonomo. «Se queste argomentazioni fossero
usate davanti a un tribunale del lavoro – spiegano -, porterebbero probabilmente a una definizione di lavoro subordinato. Al di là di quanto scritto nei contratti, per il diritto del lavoro prevale la sostanza sulla forma».

L’abilità di Uber di adattarsi alle mutate condizioni regolatorie è però nota e la società potrebbe tentare altre strade, continuano Aloisi e De Stefano. Potrebbe per esempio assumere un certo numero di lavoratori per lo stock di servizio standard e prevedere che il servizio “variabile” possa essere affidato a collaboratori saltuari. Per definire quale sia lo stock la piattaforma potrebbe ricorrere ai propri dati sulle corse e identificare quali siano i flussi e gli orari più frequenti. Un’altra strada possibile è quella di organizzare e controllare meno intrusivamente i lavoratori, lasciando autonomia “autentica”. Se venissero meno le necessità di organizzare, monitorare e disciplinare il lavoro degli autisti, sarebbe più complicato sostenere che la piattaforma eserciti prerogative assimilabili a quelle esercitate da un tradizionale datore di lavoro.

«Se le argomentazioni della Corte di giustizia dell’Unione europea fossero portate davanti a una Corte del lavoro, porterebbero probabilmente a una definizione di lavoro subordinato. Al di là di quanto scritto nei contratti, per il diritto del lavoro vale il principio “prevalgono i fatti”».


Antonio Aloisi e Valerio De Stefano

Questa sentenza, oltre che per Uber, cambierà le cose anche per altre società della platform economy? La risposta è “dipende”. Nel caso di un servizio come BlaBlaCar, che mette in contatto privati per passaggi in auto ma non impone regole su vetture, tariffe e orari, nulla dovrebbe cambiare. Sono invece immaginabili effetti su società di food delivery come Foodora e Deliveroo. «A differenza del trasporto pubblico non di linea non esistono regolamenti stringenti sulla logistica dell’ultimo miglio», spiegano Aloisi e De Stefano. «Tuttavia ogni volta che una piattaforma esercita una intrusione diretta sull’organizzazione del lavoro dei fattorini, si può dire che eroga il cosiddetto “servizio sottostante” e non si limita a mettere in contatto domanda e offerta di servizi».

Queste considerazioni portano a immaginare mutamenti anche sul lato fiscale. Fino a oggi le società della platform economy hanno potuto istituire nei vari Paesi in cui è arrivata delle piccole Srl focalizzate principalmente sul marketing, lasciando che i trattamenti economici dei collaboratori – comunque li si definisca – fossero gestiti dalla sede centrale. «Da domani queste argomentazioni saranno più deboli alla luce del fatto che non si possono più considerare dei semplici marketplace», concludono i ricercatori.

Le risposte che verranno dai modelli di business di società come Uber saranno fondamentali per capire se i servizi siano in grado di continuare a essere competitivi. Se ci riuscissero e ci fossero condizioni contrattuali e fiscali più eque sarebbe una buona notizia per tutti.

L’abilità di Uber di adattarsi alle mutate condizioni regolatorie è nota e la società potrebbe tentare altre strade. Potrebbe per esempio assumere un certo numero di lavoratori per il servizio standard e prevedere che il servizio “non standard” sia affidato a collaboratori saltuari. Oppure potrebbe organizzare e controllare meno il lavoro

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