Che l’aumento, seppur minimo, dell’occupazione non sia frutto del Jobs Act ma degli sgravi contributivi ormai lo sanno anche i muri. Ma se c’è un risultato al quale la riforma del lavoro renziana ha contribuito, di certo è la forte riduzione delle cause di lavoro. L’unica “rivoluzione copernicana” (espressione di Matteo Renzi) prodotta finora dal Jobs Act è che per la prima volta il contenzioso giudiziale, soprattutto quello legato ai contratti a termine, è in netta flessione. Dal 2014 al 2016, in soli due anni, il crollo è stato di oltre il 56 per cento. In tutto il 2016 ci sono state 1.246 vertenze e solo 490 nei primi sei mesi del 2017. Nel 2013 erano state più di 4.300. L’anno prima erano quasi il doppio: 8.019.
La curva in discesa del contenzioso non è certo il risultato di un minore ricorso al tempo determinato. Tutt’altro: la riduzione dei contratti a tempo indeterminato, con la fine degli sgravi, sta lasciando spazio da tempo a una nuova risalita dei contratti a termine. Che però negli ultimi anni sono stati progressivamente liberalizzati, attraverso il mix della semplificazione normativa introdotta dalla riforma Fornero prima e dal Jobs Act poi.
Nel 2001, l’allora ministro del Lavoro Roberto Maroni aveva sostituito l’elenco vecchio di 40 anni con la casistica minuziosa delle circostanze nelle quali il contratto era consentito, introducendo l’onere per l’imprenditore di indicare “il giustificato motivo oggettivo” del contratto (il cosiddetto “causalone”). Risultato: il numero dei contenziosi era esploso.
Nel 2012, poi, con Elsa Fornero ministro, è entrata in vigore una prima parte della riforma dei licenziamenti e dei contratti a termine, che prevedeva la acausalità del contratto a termine solo per un anno. E nel 2014 il ministro del Lavoro Giuliano Poletti ha allargato le maglie, approvando un decreto del JObs Act che ha eliminato del tutto la causale. La durata massima prevista è di 36 mesi (come in precedenza), con un tetto di cinque proroghe (all’interno dei 36 mesi) e del 20% dei lavoratori con questo tipo di contratto.
Dal 2014 al 2016, in soli due anni, il crollo è stato di oltre il 56 per cento. In tutto il 2016 ci sono state 1.246 vertenze e solo 490 nei primi sei mesi del 2017. Nel 2013 erano state più di 4.300. L’anno prima erano quasi il doppio: 8.019
Regole, condivisibili o meno, che però lasciano poco spazio alla discrezionalità del giudice e all’incertezza dell’esito di una causa, soprattutto perché vengono meno i vincoli per il datore di lavoro di indicare le esigenze legate alla scelta del contratto.
Ecco motivato il crollo verticale dei contenziosi. Che però, come fa notare il giuslavorista Pietro Ichino, che sul tema è intervenuto all’assemblea della corrente del Pd LibertàEguale, riguarda solo il settore del lavoro privato. Nel pubblico impiego, a cui non sono state applicate né la riforma del 2012 né quella del 2015, il numero di contenziosi resta invariato. «Il che», scrive, «autorizza a ipotizzare, in attesa di verifiche più rigorose, che siano proprio quelle due riforme la causa del fenomeno osservato».
E un andamento simile si vede anche per le altre tipologie di cause lavoristiche, interessate dalle riforme del lavoro. Nei licenziamenti per giustificato motivo oggettivo, ad esempio, si è passati dalle 7.500 cause del 2012 alle 3.298 del 2016. Nei licenziamenti disciplinari, dalle 3.665 del 2012 ai 1.040 del 2016. E anche sul lavoro internale c’è stato un calo: erano 1.376 nel 2012, passate a 280 nel 2016. L’unico dato in controtendenza è quello che viene fuori per i contenziosi legati ai trasferimenti dei lavoratori, aumentati dai 472 del 2012 ai 668 del 2016. E nei primi sei mesi del 2017 si è già arrivati a 365 casi. Sul fronte degli spostamenti, in assenza di regole chiare, sembra che avvocati e giudici stiano tornando protagonisti delle relazioni tra lavoratori e datori di lavoro.