Nell’ultimo periodo è successo che molti venti-trentenni salutassero con grande favore il ritorno di Cristina D’Avena (con il suo discutibile disco di duetti) e esultassero per la decisione di Netflix di trasmettere Fantaghirò. La canzone dell’Estate – Riccione dei Thegiornalisti – è stata accompagnata da un video pieno di adolescenti che si muovono in un immaginario culturale da “estate italiana” sospesa tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta: la cedrata Tassoni, zaini Invicta, «giornali tipo Lando» (cit.). Inoltre, il segretario del Partito Democratico Matteo Renzi ha recentemente fatto un post su Instagram in cui esprime felicità per il ritorno di Holly e Benji. Non è certo una novità di quest’anno, ed è un trend diffuso non solo in Italia ma in tutto il mondo Occidentale, ma è fuori di dubbio come anche nel 2017 abbia prevalso la nostalgia.
Intervistando su queste pagine Simon Reynolds sul concetto di Retromania (e cioè l’impossibilità di immaginare un futuro dopo aver fatto incetta di ogni combinazione possibile di passato), si constatava come la nostalgia fosse il rifugio di una società in crisi, incapace di produrre una cultura, un’immaginario e un racconto capace di superare uno schema consolidato. La musica pop vive da tempo un momento di grande stallo, in cui si mescolano forme conosciute in un eterno revival che conforta proprio perché sa di già sentito. Il cinema ripropone immaginari che arrivano da un’altra epoca cercando di adattarli ai giorni nostri. La televisione, ormai da un decennio buono, recita un ritornello ormai stanco su quanto erano belli i bei vecchi tempi andati (arrivando al paradosso assoluto del ritorno in auge di detriti degli anni Novanta quali Enrico Papi). La nostalgia è un bene rifugio, un sentimento posticcio, consolatorio, che non produce assolutamente niente se non un’immagine edulcorata di qualcosa che non è mai esistito. Siamo circondati dalla nostalgia perché è l’unico modo che abbiamo per stare bene: pensare a un passato fittizio in cui i problemi non c’erano e in cui tutto era splendente e facile, dove non c’erano preoccupazioni e non c’erano responsabilità.
Cosa succede, però, quando la nostalgia diventa lo strumento privilegiato attraverso cui sono proprio i venti-trentenni a interpretare la realtà? Cosa succede se proprio le generazioni che dovrebbero più di tutte costruire le basi per un vocabolario nuovo, delle retoriche nuove, dei racconti nuovi, si ripiegano appiattendosi a un racconto che – tra l’altro – è stato vissuto solo in parte?
Cosa succede, però, quando la nostalgia diventa lo strumento privilegiato attraverso cui proprio i venti-trentenni interpretano la realtà? Cosa succede se le generazioni che dovrebbero più di tutte costruire le basi per un vocabolario nuovo, delle retoriche nuove, dei racconti nuovi, si ripiegano appiattendosi a qualcosa che – tra l’altro – è stato vissuto solo in parte? Cresciuti in un ecosistema mediale in cui ogni cosa cominciava a essere accessibile in qualsiasi momento in un flusso totale che rende impossibile il distacco critico, la lettura consapevole e la possibilità di mettere le cose in prospettiva, attingiamo le immagini di un passato mai sistematizzato secondo le logiche di consumo di un vero e proprio “supermarket dell’immaginario”, dove tutto è indistinto. Quello che succede non è solo la nostra incapacità di produrre o ipotizzare qualcosa di nuovo. Quello che succede, è che nostalgia sta diventando il cavallo di Troia della rassegnazione: è andata così, allora tanto vale consolarci in qualche modo.
È forse un vero e proprio problema generazionale diffuso. Delusi dalla politica, sfiduciati sulle prospettive di lavoro, incapaci di darsi un senso e un futuro, si ripiega in un’adolescenza che non finisce mai. Il tutto condito da una (in)sana dose di ironia, l’altra chiave di interpretazione del mondo che sta rendendo la nostalgia non un innocuo gioco esistenziale, ma il segno di una profonda crisi culturale e sociale. Secondo una famosa tesi di David Foster Wallace in E unibus pluram, l’ironia livella qualsiasi cosa, impedisce il discernimento e toglie le questioni di merito. Quando tutto è uguale a tutto, allora niente ha valore. E, citando gli Afterhours, «se vale tutto, niente vale». C’è molta ironia dietro le rivalutazioni di Cristina D’Avena o dietro la rilettura di Fantaghirò (quando invece si tratta di prodotti culturali indici sì di uno spirito del tempo, ma tutto sommato mediocri). Così come è molto ironico tutto l’occhieggiare all’immaginario Sapore di mare e al pop italiano “che ha fatto la storia” dei Thegiornalisti. Il rischio è che tra le cose molto ironiche passino anche faccende ben più gravi come un voto al Movimento 5 Stelle, o l’atteggiamento bonario nei confronti di Silvio Berlusconi.
È forse un vero e proprio problema generazionale diffuso. Delusi dalla politica, sfiduciati sulle prospettive di lavoro, incapaci di darsi un senso e un futuro, si ripiega in un’adolescenza che non finisce mai
Quando non esiste più il futuro e si è saccheggiato il passato, non resta che il presente. E secondo Douglash Rushkoff (autore qualche anno fa di un saggio illuminante dal titolo Presente continuo), questo atteggiamento di costante “presentificazione” è proprio di una società che si sta preparando al collasso. Insomma, tra una Kiss Me Licia cantata senza pensieri pensando a quando mangiavamo un Cucciolone Algida; e un sospiro al caschetto di Alessandra Martines rendiamoci conto che Nanni Moretti in Palombella Rossa aveva ragione, e che «le merendine di quand’ero bambino non torneranno più». Forse è il caso di fermarci un attimo e fare tutti quanti un bel respiro profondo. Del resto – e sarebbe il caso di dircelo – di tutta questa nostalgia, cosa diavolo ce ne facciamo?