Annus horribilisIl 2018 sarà l’anno nero degli europeisti

I negoziati per decidere il budget pluriennale europeo, la fine del mandato di Mario Draghi alla Banca centrale europea, le elezioni in Ungheria, Svezia e Italia: i prossimi 12 mesi rischiano di essere molto difficili per gli antisovranisti

Nel 2013 l’artista belga Thomas Bellinck creò un museo a Bruxelles sulla fine dell’Unione europea predicendo che sarebbe collassata nel 2018 tra nazionalismi, neofascismi, e suicidi dovuti alla grande recessione. Dopo cinque anni la sinistra europea è morta, l’integrazione pacifica tra Est e Ovest è morta, e anche l’Ue non si sente benissimo.

Il 2018 doveva essere l’anno delle riforme europiste di Emmanuel Macron e Jean Claude Juncker; ora rischia di essere l’annus horribilis degli europeisti. E non solo per il voto in Ungheria, Italia e Svezia. La frattura tra Ovest ed Est Europa porterà a uno stallo istituzionale che rimanderà tutto al 2019. Un anno congelato. E nei prossimi 12 mesi saranno Austria e Bulgaria a presiedere il Consiglio dell’Unione europea, ovvero l’organo che riunisce di volta in volta i ministri dei 27 Stati Ue in base ai dossier. Cioè due tra gli Stati che si oppongono di più alle riforme sull’integrazione europea e il superamento del trattato di Dublino.

Proprio la Bulgaria ha inaugurato pochi giorni fa il semestre di presidenza del consiglio dell’Unione europea chiarendo la sua posizione sulla riforma per l’accoglienza dei migranti: non si voterà a maggioranza, ma per consenso. Un metodo per non ampliare la frattura fra Est e Ovest, ma che rischia di bloccare tutto per un anno. Il compito della Bulgaria sarà quello di decidere l’ordine del giorno e i dossier da affrontare nei prossimi sei mesi.

Secondo uno studio del Consiglio europeo sulle relazioni estere sulla capacità e la volontà degli Stati membri di cooperare tra loro ha dimostrato che la Bulgaria è il partner meno ricercato e il meno reattivo nell’informarsi sulle posizioni comuni degli altri Stati membri. Di certo non il miglior mediatore in questo momento storico e politico. Seza contare che l’obiettivo principale del premier Borisov ex bodyguard e maestro di karate, sarà quella di aprire a un ingresso degli Stati balcanici nell’Unione, più che affrontare la questione migranti o l’unione bancaria.

Non tira una bella aria nello Stato più povero e più corrotto dell’UE. Lunedì è stato assassinato in pieno centro il 49enne imprenditore Petar Hristov a capo di Laktima, la più grande azienda lattiero casearia del Paese, vicina al partito di governo ma anche tra i sostenitori di Tsetska Tsachev, candidato filoeuropeo alle elezioni presidenziali del 2016. E una settimana fa il presidente bulgaro Rumen Radev ha messo il veto alla legge anticorruzione. Non proprio il miglior Stato per risolvere le tensioni politiche tra i 27.

Simbolo di questa guerra che va dall’integrazione alla riforma dei migranti – ne abbiamo parlato qui – è la Polonia. La Commissione ha proposto di attivare l’articolo 7 del trattato sull’Unione. Tradotto: sanzioni economiche e perdita del diritto di voto in Consiglio se Varsavia non cambierà la riforma sulla giustizia che mina l’indipendenza della corte costituzionale.

Martedì il presidente della Commissione europea Jean Claude Juncker e il premier polacco Mateusz Morawiecki si sono incontrati a cena dopo il rimpasto di governo di Varsavia, fatto per dare un segnale a Bruxelles. Anche se la la situazione rischia di rimanere sempre la stessa. Negli ultimi mesi sono cambiati tre ministri e un premier, ma il partito è sempre guidato dietro le quinte da Jarosław Kaczyński. Così com’è rimasta intatta la riforma della giustizia che mina l’indipendenza della corte costituzionale polacca.

Il leader di Pis, ha sempre detto di ispirarsi al governo ultranazionalista del premier ungherese Viktor Orban e di volere l’avvento di una “Budapest a Varsavia. La sintonia dei due Paesi è forte e punta a contrastare il binomio Francia e Germania che ha da sempre trainato le riforme dell’Unione. In un incontro domenica con Orban, il premier Morawiecki ha predetto un “anno di grandi battaglie” contro il valore multiculturale e integrazionista dell’Europa occidentale.

Francia e Germania nei prossimi mesi avranno un’arma molto più potente e persuasiva dell’articolo 7 per convincere gli Stati meno integrati a rivedere le loro posizioni: il negoziato per decidere il prossimo bilancio pluriennale dell’Unione dal 2021-2027. Senza il Regno Unito dal 1 gennaio 2020 serviranno tra i 12 e i 13 miliardi di euro all’anno. Chi metterà quei soldi? E dove si deciderà di investire? A oggi il bilancio vale 1000 miliardi di euro. Due le voci principali: 39% alla Politica agricola comune, circa 420 milioni di euro e 34% per la coesione economica e territoriale, circa 370 milioni di euro. Il presidente della Commissione europea Juncker ha parlato di priorità diverse rispetto al 2014. Vorrebbe aumentare i fondi per sicurezza, difesa e migranti, considerate punti chiave per la politica della Commissione nei prossimi anni.

Proprio il commissario al bilancio Gunther Oettinger ha detto di voler coprire il buco britannico con due toppe: forti tagli e nuove imposte. Oltre alla web tax si pensa a una imposta sulla plastica. Mentre i fondi europei come il Fesr per ridurre le disparità tra le regioni d’Europa sono vitali per la Polonia, il secondo beneficiario netto nell’Ue. Più di 86 milioni ricevuti dal 2014 al 2020. Senza sarebbe difficile

Chi è il secondo paese in classifica? L’Italia, naturalmente. Ogni anno l’Eurostat pubblica la mappa delle zone più depresse economicamente dell’Unione: se la Lombardia è verde scuro e sta meglio di Baviera e Fiandre, tutto il Mezzogiorno è rosso scurissimo. Bisognerebbe ricordarlo a chi dice solo che l’Italia è contributore netto. È vero, diamo molto all’Europa, ma prendiamo molto. Sono sempre soldi nostri, si dirà, ma ne avremmo molti meno se fossimo isolati e non facessimo parte del mercato unico europeo.

Da una parte Ungheria e Polonia sono beneficiari netti, dall’altra Francia e Germania sono contributori netti,. Non serve una laurea in matematica né un master in strategia politica per capire che Berlino e Parigi hanno il coltello dalla parte del manico. L’obiettivo di Macron e Merkel, sarà quello di vincolare l’uso dei fondi con l’adesione ai principi e ai valori dell’Unione europea. Usare il martello politico potrebbe però non essere la scelta migliore. La situazione è delicata: la procedura per attivare l’articolo contro la Polonia è ancora in corso e in primavera si tornerà a votare in Ungheria e se Orban dovesse vincere ancora le elezioni con un grande vantaggio, aumenterebbe lo scontro politico fino a un punto di non ritorno. Messi alle strette, Varsavia e Budapest potrebbero minacciare una posizione diversa da quella portata avanti finora nei negoziati Brexit e disunire il blocco dei 27. La Commissione dovrà presentare una proposta entro fine maggio da presentare a Consiglio ed Europarlamento.

Fino a quel momento la battaglia politica si combatterà su questi due fronti: budget e riforma migranti. L’europeista Macron ha pochi alleati e quelli che ha non sono così forti. Senza Angela Merkel impegnata nelle trattative con il partito socialdemocratico tedesco per formare il suo quarto governo consecutivo, l’Unione europea non ha più il suo centro di gravità permanente. Emmanuel Macron ha cercato nelle ultime settimane di colmare questo vuoto: prima il viaggio a Pechino alla corte di Xi Jinping, poi l’incontro bilaterale con la Turchia per tenere in vita i rapporti con Recyp Erdogan, infine la proposta di un Trattato del Quirinale per consolidare la cooperazione tra Francia e Italia nella lotta all’integrazione europea.

Più che un centro di gravità permanente, il presidente francese sembra una trottola politica che gira molto ma è incapace di attrarre e creare consenso politico con i Paesi meno vicini politicamente e geograficamente. Servirà tempo e un aiuto da Berlino. Al contrario di quanto detto dal candidato premier del Movimento Cinque Stelle Luigi Di Maio martedì a Porta Porta, l’asse franco tedesco è forte, fortissimo. La sintonia tra Merkel e Macron è evidente. Ma la cancelliera ha bisogno di un governo per completare l’ultimo mandato. E a cento giorni dalle elezioni non ci è ancora riuscita.

Macron continua a combattere una lotta politica senza alleati, con la prospettiva di averne sempre di meno. Il 4 marzo si voterà in Italia e la prospettiva è quella di un governo euroscettico o di un non governo in prorogatio. A settembre la sorpresa però potrebbe venire da Stoccolma. Nel nostro immaginario collettivo la Svezia è il paradiso del socialismo dove tutti sono ricchi e godono dei servizi di uno stato sociale perfetto. Ma i nazionalisti esistono pure in svezia.

Secondo i sondaggi il partito Sverigedemokraterna (democratici svedesi) che ha spinto molto contro le quote di accoglienza dei migranti dovrebbe arrivare intorno al 16%. Il dato non stupisce visto che secondo Bloomberg il supporto per i partiti radicali di destra è il più alto degli ultimi 30 anni. Il premier socialdemocratico Stefan Löfven è ancora avanti nei sondaggi ma il suo alleato di governo, il partito dei verdi, non sta andando molto bene. Anche se è ancora è presto per fare delle previsioni.

In questo annus horribils gli europeisti guarderanno con attenzione cosa succederà a settembre a Francoforte. Il 31 ottobre finirà il mandato di Mario Draghi come presidente della Banca centrale europea e terminerà la stagione del quantitative easing che ha dato molto respiro alle finanze italiane. Non sappiamo quale sarà la politica del suo successore ma la sensazione è che il ruolo della Banca centrale sarà sempre più da arbitro e meno da giocatore. E nel caso di una nuova tempesta economica non è detto che la Bce intervenga per salvare l’euro a qualsiasi condizione. Draghi ha chiesto più volte in questi anni ai leader europei di usare questa finestra di opportunità per fare le riforme necessarie nei loro Paesi e in Europa. Ora il tempo sta per scadere.

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