Di motivi per festeggiare l’industria europea ne ha a bizzeffe. Per chi ha qualche dimestichezza con gli indici Pmi (Purchasing Managers’ Index) di Ihs Markit basta un dato, relativo al settore manifatturiero e riferito allo scorso dicembre: 60,6. Per gli altri servono due righe in più: l’indice Pmi si basa su indagini presso decisori di aziende (3.000 nell’Eurozona), considera le aspettative e gli ordinativi ed è considerato uno degli indici più autorevoli nel fornire tendenze relative al settore privato sulla base di variabili quali vendite, livelli occupazionali, scorte e prezzi. Se il livello è sopra 50 significa che l’economia o un settore è in fase di espansione, se è al di sotto che è in fase di contrazione. Ebbene, 60,6 è il livello più alto mai raggiunto nell’Eurozona dalla metà del 1997, data di inizio dell’indagine. A livello generale, dice la nota di Markit, l’indice a dicembre è stato spinto da forti tassi di espansione della produzione, da nuovi ordini e da alti livelli occupazionali. Tra i vari Paesi, l’Austria (64,3), la Germania (63,3) e l’Irlanda (59,1) hanno fatto segnare i valori più alti di sempre, con i Paesi Bassi appena sotto il massimo storico, a quota 62,2. L’Italia, che pure è scesa dal picco di tre mesi fa, segna un più che positivo 57,4 e in espansione sono anche Spagna e Grecia. La congiuntura è buona perché vanno contemporaneamente bene la domanda domestica nell’Eurozona e le esportazioni. La fiducia delle imprese è ai massimi dall’inizio delle rilevazioni, nel 2012, sebbene l’Italia mostri un peggioramento e sia lontana dai valori record della Germania, ma anche della Francia e della Grecia (non è una sorpresa, visto che nel 2012 il Paese era nel pieno della sua crisi).
Molto alto è anche il livello dell’indice Pmi servizi (56,6), con un risultato di un indice composto di 58,1. Se i numeri dicono poco, dice di più il fatto che a dicembre il ritmo di creazione di posti di lavoro (considerando servizi e manifatturiero) nell’Eurozona è stato il più alto degli ultimi 17 anni, grazie a incrementi soprattutto in Germania, Francia ma anche in Italia, Spagna e Irlanda. Il nostro Paese segna però un tasso moderato di fiducia per il futuro nel settore dei servizi e una debole ripresa dell‘inflazione rispetto agli altri Paesi. Se la Bce dovesse alzare i tassi (per quanto Draghi lo abbia escluso per i prossimi mesi) l’Italia potrebbe quindi subire più contraccolpi degli altri membri dell’Eurozona.
Un indice manifatturiero ai massimi dal 1997, la fiducia delle imprese più alta dal 2012 e il ritmo di creazione di lavoro più alto da 17 anni possono bastare a farci dormire sonni tranquilli? No, perché stiamo perdendo rapidamente terreno su molti fronti dell’innovazione. A lanciare l’allarme sono gli stessi produttori europei, attraverso la loro associazione di categoria
Tutte le sfide che stiamo perdendo
Questa fotografia, per quanto molto positiva, ritrae però solo il presente e le aspettative per il futuro prossimo. Che cosa succederà dopo? Una risposta arriva dall’associazione degli industriali europei (Ert) e, un po’ a sorpresa, è tutt’altro che celebrativa. Nel rapporto European Competitiveness and Industry 2017 la soddisfazione delle prime righe sulla ripresa lascia presto spazio ai campanelli di allarme. «Questi successi di breve periodo non dovrebbero nascondere le sfide di lungo periodo a cui l’economia va incontro», scrive Kurt Bock, dirigente e di Basf e presidente del gruppo di lavoro sulla competitività della Ert. «La recente ripresa non lascia spazio per l’autocompiacimento. Questa opportunità va invece colta per migliorare il potenziale di una crescita sostenibile nel lungo periodo».
Quali sono le sfide? C’è intanto una proiezione di crescita che per il 2018-2020 sarà in media inferiore a quella del 2017. La quota europea nel valore della produzione manifatturiera sta scendendo, come quella degli Usa, a vantaggio della Cina e degli altri produttori asiatici. La quota dell’export sta calando più di quella degli Usa. Per questo «i decisori europei e i vari portatori di interesse devono evitare l’eccessivo compiacimento, se non vogliono che la posizione di leader nel manifatturiero sia erosa ulteriormente», si legge nel rapporto. Anche la produttività nell’Eurozona, anche se mediamente in crescita, è ancora pari a circa il 75% di quella statunitense. Il livello degli investimenti, sia pubblici che privati, è inferiore a quelli di Cina e India e tra i Paesi che più li hanno tagliati ci sono Spagna e Italia. La natura degli investimenti privati inoltre sta cambiando. Guardando la capitalizzazione delle maggiori 500 società globali, si vede come dal 2011 al 2017 (soli sei anni), la quota delle società Usa è salita dal 37 al 51%; quella della Cina dall’8 all’11%, mentre quella europea è crollata dal 25 al 18%.
Ma è soprattutto il dato sulla capitalizzazione degli “unicorni”, cioè delle startup con un valore di borsa di oltre 1 miliardo di dollari, che colpisce, perché la torta è divisa tra Usa (51%) e Cina (33%), mentre all’Europa rimangono solo le briciole (6%).
È solo il primo di una serie di dati allarmanti rigurdanti l’innovazione, che è individuata come la prima emergenza dal rapporto. Non solo la «quota europea di grandi start-up tecnologiche è inferiore a quella richiesta perché l’Europa rimanga competitiva con la Cina e con gli Stati Uniti», come si legge nell’analisi. «Gli investimenti in ricerca e sviluppo da parte dell’Ue sono inferiori alla media Ocse e sono in ritardo rispetto ai principali concorrenti, inclusa la Cina», continua il rapporto. Si investe poco in venture capital, ossia nel capitale di rischio dedicato alle startup. Il potenziale di crescita atteso dalle applicazioni dell’intelligenza artificiale è molto inferiore a quello di Cina e Usa. Le città europee (con l’eccezione di Londra e Barcellona) stanno scendendo nei ranking delle “smart cities”. C’è bisogno di più investimenti sulle infrastrutture delle telecomunicazioni. Tra i pochi aspetti positivi c’è una maggiore preparazione, legale e tecnica, rispetto alle altre areee mondiali su diversi aspetti della cybersecurity.
Le slide seguenti rendono molto bene l’idea di quello che sta accadendo.
È soprattutto il dato sulla capitalizzazione degli “unicorni”, cioè delle startup con un valore di borsa di oltre 1 miliardo di dollari, che colpisce, perché la torta è divisa tra Usa (51%) e Cina (33%), mentre all’Europa rimangono solo le briciole (6%)
Come si vede, i problemi riguardando anche la forza lavoro. L’Europa parte zavorrata da una popolazione che invecchia velocemente, ha necessità di incrementare le competenze sull’Ict dei suoi lavoratori e di conseguenza di fare un salto sulla formazione continua durante la vita lavorativa. Il terzo ambito di problemi è quello di un commercio globale che si va facendo più difficile, con il fallimento di trattati come il Ttip e un aumento di dazi generalizzato che mette a rischio, in prospettiva, le esportazioni europee. Il grande motivo di orgoglio riguarda invece la capacità di coniugare l’espansione industriale con le riduzioni dell’intensità di energia e delle emissioni di CO2.
Tutte le sfide di lungo periodo, esorta l’associazione europea degli industriali, non possono essere messe sotto il tappeto e devono diventare una priorità delle politiche europee. In Italia, la cui campagna elettorale è quanto di più distante da queste tematiche, sarebbe il caso di prendere appunti.