Il liberismo è morto a Davos. Ora siamo tutti nazionalisti

Tra i leader presenti al World Economic Forum è difficile trovare un politico davvero aperto al mercato globale, che non metta prima gli interessi della nazione rispetto al resto del mondo: le popolazioni si sono stancate delle promesse di crescita liberiste e globaliste

Il liberismo come lo conosciamo è morto a Davos?

Facciamo un passo indietro per capire lo scenario. Due grandi testate di “sistema” parlano di Davos in chiave opposta.

Dalle pagine del New York Times il 22 gennaio Peter Goodman, titola che il populismo sta svanendo, e quindi a Davos (dove i populisti non sono visti molto bene) c’è motivo di festeggiare.

Dalle pagine del Financial Times (altro baluardo dell’ordine economico capitalista costituito) il 23 gennaio scrive Martin Wolf, titola “Davos: l’Ordine liberale internazionale è malato”.

Una delle due testate liberali si sbaglia.

A Davos si sono ritrovati, come al solito, due gruppi. Finanza e politica.

Il primo gruppo è composto dai leader della finanza privata: banche, assicurazioni, fondi d’investimento e, in breve, chiunque abbia interessi finanziari globali. Gli interessi globali della finanza travalicano il mondo della mera speculazione finanziaria, andando a influenzare altre sfere della vita sociale. La finanza speculativa è alla base della bolla immobiliare 2006-2008 americana, della successiva bolla mondiale delle commodity (che ha fatto crollare alcune delle nazioni più dipendenti dalle esportazioni di materie prime, dal Brasile alla Russia fino ad arrivare alla piccola Repubblica del Sud Africa).

La finanza speculativa ambisce, tra le altre cose, a un mondo senza barriere nazionali. Senza muri, confini. Un mondo dove i capitali oggi possono essere investiti in Cina oggi, e in Africa domani.

Questo gruppo di persone supporta, di norma, quei politici che hanno una agenda globalista. Politici che prediligono un mondo senza muri, dove i cittadini, la forza lavoro, sono commodity senza connotazione. Scambiabili o sostituibili come le mele in un cesto di frutta (dalla Clinton in Usa, alla Merkel o Renzi in Europa).

Il secondo gruppo di persone presenti a Davos sono i politici.

Questi individui rappresentano la gran parte della popolazione mondiale.

La novità di quest’anno a Davos è che molti di questi politici sono di fatto stati eletti con un agenda nazionalista, patriottica, o quanto meno propensa ad accordi che possono danneggiare gli interessi dei loro elettori.

Per comprendere quanti sono i Leader politici nazionalisti (diciamo non proprio globalisti) possiamo controllare la lista direttamente dal sito del World Economic Forum.

Facciamo una breve esplorazione per comprendere perché, a Davos, il liberismo è di fatto morto.

Prima il gruppo dei nazionalisti convinti (quelli stile “prima gli interessi della mia nazione poi il resto del mondo”).

Narenda Modi, primo ministro indiano, nazionalista.

La sua politica è più o meno India first. Ha fatto un discorso molto globalista, politicamente corretto. Tuttavia la sua agenda politica è la più nazionalista degli ultimi decenni della storia indiana.

Donald Trump. Presidente Usa, nazionalista.

Thresa May, primo ministro Regno Unito. Nazionalista e secessionista (guida un governo la cui nazione ha deciso di uscire da un accordo politico ed economico di libero scambio in cui era da decenni).

Liu He, rappresentante del governo cinese, esperto di finanza. La Cina a parole è globalista, specialmente ascoltando il discorso del suo leader. Se osserviamo come si muove nei fatti, la Cina è in vero mercantilista: quando si tratta di esportare i suoi prodotti, comprare o invadere mercati stranieri è molto globalista. Se osserviamo la sua politica in difesa delle aziende nazionali chiave, del commercio, la sua strenua difesa della sua valuta e dei suoi interessi finanziari la Cina è tutto fuorchè globalista.

Passiamo ai finti globalisti: sulla carta sposano un mercato libero ma, nei fatti, per ragione di stato (leggasi volere degli elettori) sono piuttosto nazionalisti, specie nelle scelte economiche.

Macron Emanuele, presidente francese. Globalista quando si tratta di portare a casa investimenti anche da nazioni borderline (esempio il Qatar, che ha alcuni problemi di finanziamento a organizzazioni poco legali), patriottico se si tratta di cooperazione internazionale.

Tra le altre scelte poco globaliste, la visione di Macron sui migranti (meglio a casa loro) e la politica estera di difesa degli interessi nazionali.

Michel Meter, presidente del Brasile succeduto a presidenti populisti come Lula e Rouseff. Di base un personaggio di passaggio. Deve risolvere una penetrazione violenta cinese a svantaggio delle aziende nazionali. In più si trova sotto pressione alle prossime elezioni dalla presenza di due candidati populisti come Lula e Bolsonaro.

Tra gli indecisi, quelli che un po’ stanno a vedere dove tira il vento e un po’ son neutrali: africani e svizzeri.

Tra i globalisti ovviamente Merkel, che fresca di un accordo franco tedesco, è la fiera paladina di un’economia fluida, senza barriere.

Peccato che la posizione tedesca sia, anche in questo caso, molto simile alla Cina.

Se si tratta di esportazioni (la Germania ha un surplus di esportazioni importante e non può permettersi di farlo decrescere) Miss Merkel è pro mondo. Se parliamo di apertura verso il mondo, tuttavia, si nota come la Merkel sia in crisi sul tema migranti con i suoi “potenziali alleati”.

Anche Trudeau, primo ministro canadese, e grande sostenitore del Ceta, è manifestamente globalista, o meglio liberista.

Anche nel suo caso questa passione per i liberi mercati si spiega semplicemente con la bilancia economica canadese che mira a esportare materie prime e beni lavorati.

Un’ulteriore preoccupazione (persino NYT lo ammette), è una crescita dell’indebitamento. Soldi iniettati nel sistema finanziario, un sistema che, si teme, potrebbe non essere in grado di reggere un altra crisi.

Una crisi che spingerebbe ulteriormente la popolazione alla paura e alla ricerca di politici nazionalisti che possano “proteggerli” dal mondo esterno.

La situazione che Wolf ha descritto è semplice: le popolazioni (specialmente la classe media) di un numero piuttosto elevato di stati storicamente democratici e globalisti si sono stancati delle promesse di crescita liberiste e globaliste.

A Davos sembrano non essersi accorti che il liberismo, o se preferiamo il globalismo, come lo abbiamo conosciuto, è morto.

Cosa può fare la finanza globale a Davos per “risolvere” questo piccolo problema?

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