La lunga stagione di opposizione senza sconti del Movimento Cinque Stelle in questi anni ha nascosto dietro una cortina di fumo un fatto che oggi emerge a sorpresa: la vicinanza delle proposte economiche dello stesso Movimento a molte delle politiche dei governi della legislatura appena conclusa. Per rendersene conto basta leggere l’intervista rilasciata il 4 gennaio dal capo politico del M5s, Luigi Di Maio, al Mattino di Napoli. Si comincia dalle prime righe, dove il candidato premier auspica «una rivoluzione dei centri per l’impiego su scala nazionale». Chissà che avrà pensato il ministro del Lavoro Giuliano Poletti (o l’ex sottosegretario Tommaso Nannicini), visto che un’Agenzia nazionale per le politiche attive (Anpal) è effettivamente stata istituita nel 2015, a seguito del Jobs Act. E chissà che ne pensa il suo presidente, Maurizio Del Conte, che da un anno e un mese, cioè dal referendum costituzionale del 4 dicembre 2016, non cessa di lamentarsi di avere le mani legate perché gran parte del potere sui temi di politiche attive e formazione è rimasto alle regioni.
Probabilmente lo stesso che avrà pensato il ministro dei Beni e delle attività culturali e del turismo, Dario Franceschini, di fronte a due proposte politiche di Di Maio: quella di istituire un ministero ad hoc sul turismo (per la cronaca l’Italia non l’ha avuto dal referendum abrogativo del 1993 al 2013, quando il governo Letta lo reintrodusse, unendolo ai beni culturali); e quella di creare una strategia nazionale per il turismo. Qui le curiosità sono due: la prima è che un Piano strategico per il turismo (2017-2022) esiste ed è appena stato varato. La seconda è che il capo politico dell’M5s invoca la modifica del Titolo V della Costituzione per permettere di attuare tale strategia nazionale. È solo il caso di ricordare, sommessamente, che questa modifica, con il relativo riaccentramento nelle mani dello Stato di alcune funzioni, era prevista nella riforma costituzionale che l’M5s si impegnò più di tutti per bocciare in Parlamento e poi con il referendum.
Si potrebbe anche ricordare il recente appoggio al referendum per l’autonomia sia in Lombardia sia in Veneto, dove il governatore Luca Zaia aveva promesso che la regione si sarebbe presa, in caso di vittoria, le deleghe di tutte e 23 le materie a competenza concorrente. Tra queste c’è anche il trasporto e distribuzione nazionale dell’energia. Vale ricordarlo perché l’energia è un altro terreno su cui Di Maio vuole un “grande piano di riconversione”, che si immagina sia nazionale. Questo piano ha più gambe, una più ambiziosa – stop al petrolio entro il 2050 – e una più a portata di mano: stop al carbone entro il 2025. In questo caso c’è da chiedersi cosa pensi il ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda, dato che la Strategia energetica nazionale, varata lo scorso novembre, prevede l’uscita completa dal carbone negli impianti termoelettrici proprio dal 2025.
Lo stesso Calenda avrà di che riflettere di fronte alla frase che nell’intervista al Mattino riguarda l’Ilva: «Quell’impianto va riconvertito per gradi ma va riconvertito e i lavoratori dell’Ilva vanno coinvolti nella bonifica», dice Di Maio. Dopo anni di muro contro muro, è una posizione che pare molto più “centrista” di quella del governatore pugliese Michele Emiliano, accusato dal candidato M5s assieme a Calenda di aver creato «un caos mediatico che ha danneggiato anche gli imprenditori che stanno cercando di investire in quell’area».
Nell’intervista al Mattino emerge un Luigi Di Maio molto centralista, a partire dalle politiche attive del lavoro, per le quali auspica «una rivoluzione su base nazionale». Un’agenzia nazionale però c’è già, e non può funzionare dopo la bocciatura della riforma costituzionale del 2016
A proposito di centralismo, vale la pena di leggere il passaggio sui i beneficiari del reddito di cittadinanza. «Una volta trovato, anche su base nazionale, un lavoro confacente alle caratteristiche del cittadino – dice Di Maio – non si potrà rifiutare la proposta, pena la perdita immediata del sussidio». Si dovrebbe quindi essere pronti a partire per l’altro capo dello Stivale. Nulla da eccepire se non fosse che lo stesso M5s aveva più volte parlato di “deportazione in massa” di fronte alla necessità che gli insegnanti si spostassero di regione per poter passare di ruolo, dopo la Buona Scuola.
Graziano Delrio non troverà cenni esplciti al suo piano “Connettere l’Italia” su trasporti, portualità e logistica, né a al piano nazionale aeroporti. Ma sembra evocarlo quando, parlando delle priorità per risollevare il Sud, dice: «punteremo sulle grandi infrastrutture attraverso un piano integrato di lungo periodo e non con interventi spot buoni per tagliare nastri». Quando si evocano le priorità, c’è una netta presa di distanza dalla Tav Torino-Lione e da «nove miliardi di opere inutili, soprattutto al Nord». Ma ci sono almeno due riferimenti a tasti pigiati spesso da Delrio: gli investimenti per le ferrovie, ossia la “cura del ferro” (per Di Maio si deve partire dalle ferrovie a binario unico in Liguria, Lombardia, Sicilia, dalla ferrovia a Matera e per il Cis di Nola); e gli investimenti per il rinnovo del parco mezzi degli autobus, per cui il ministro promise 4 miliardi di investimenti (Di Maio rilancia: «rinnovamento di tutto il parco del trasporto pubblico su gomma, che dovrà essere elettrificato entro il 2020»).
Sugli investimenti in ferrovia c’è da chiedersi cosa pensi un professore di economia dei Trasporti come Marco Ponti, che l’M5s ha sempre preso come riferimento per la sua contrarietà alla Tav e che è divenuto sempre più critico verso la “cura del ferro”, perché molto dispendiosa rispetto alle autostrade e di dubbio vantaggio ecologico, considerando la non remota prospettiva di auto elettriche molto diffuse. C’è di che rassicurarlo, perché tra le altre priorità per il Sud Di Maio cita le autostrade, dato che «in Sicilia ci sono seri problemi». Inoltre ci sono gli «investimenti nelle auto elettriche», come misura citata tra quelle che potrebbero creare lavoro. Chiunque abbia seguito la vicenda dell’ex stabilimento Fiat di Termini Imerese sa però quante insidie un proponimento del genere può nascondere (dall’ipotesi della “Florio” al fantasma della Grifa, fino alla sfida ancora aperta di Blutec).
La svolta sulle “grandi infrastrutture” che servono al Sud: ferrovie a binario unico da rafforzare in Liguria, Lombardia e Sicilia, treno da far arrivare a Matera e al Cis di Nola, autostrade nella stessa Sicilia
Nella trentina di proposte del candidato premier del Movimento c’è poi la necessità di creare una banca pubblica in seno al ministero dello Sviluppo economico; nessun cenno però al recente trasferimento della Banca del Mezzogiorno di tremontiana memoria a Invitalia da Poste Italiane. C’è invece il riferimento al recupero del «piano di centralizzazione degli acquisti» (vale a dire che si continuerà il lavoro della Consip); e alla «riorganizzazione della pubblica amministrazione». Esplicita la citazione dell’ex commissario alla spending review Carlo Cottarelli, il cui lavoro lasciato «è stato ottimo». L’ex commissario, che non perde occasione per ricordare che il debito pubblico va tagliato, ha avuto modo di esprimere molto chiaramente le sue perplessità sulla copertura del reddito di cittadinanza (17 miliardi annui) nella trasmissione Otto e Mezzo.
Per finanziare manovre come il reddito di cittadinanza, il taglio del cuneo fiscale e la modifica della riforma Fornero sulle pensioni, Di Maio conferma che si dovrà sforare il deficit, dentro cui non dovrebbero rientrare gli investimenti. Sono i punti in cui, come noto, sono maggiori le distanze con gli ultimi governi. Vanno assieme agli altri emersi dall’intervista: la presa di distanze dalla “voluntary disclosure”, lo stop ai vantaggi fiscali per le fondazioni bancarie, l’intenzione di finanziare le energie rinnovabili senza pesare sulla bolletta, la chiusura dei negozi durante almeno sei festività, la critica al Jobs Act (anche se non c’è un esplicito impegno a rimettere l’articolo 18); fino alla “extrema ratio” di un referendum sull’euro, nel frattempo diventato «consultivo» e non più legato a una modifica della Costituzione come proposto in passato.
Il leader M5s pensa che però non ci saranno rotture in Europa: «Il momento è proficuo ed è favorevole per l’Italia – dice – : la Germania non riesce a fare un governo. In Spagna c’è un governo di minoranza. In Francia i partiti tradizionali sono stati spazzati via». Una strizzatina d’occhio a Emmanuel Macron, che poco prima era stato lodato per aver «bloccato» la Tav Torino-Lione? Sarebbe un altro colpo di scena, anche se Macron e i suoi consiglieri – a partire da Jean Pisani Ferry – sulla difesa del fiscal compact sono stati da subito molto chiari. Non rimane che il riconoscimento ambiguo a Mario Draghi: «Mi preoccupa il fatto che alla Bce non ci sarà più un italiano – concede Di Maio -. Ma Draghi ha contribuito a mettere la polvere sotto il tappeto. Lo spread rischia di ripresentarsi una volta finito il programma di Quantitative Easing». Che lo spread si riproponga a causa delle promesse di maggior deficit e della minaccia di uscita dall’euro è una delle tante possibili domande che nascono da questa intervista.