Ormai è diventato un luogo comune, una chiosa di buon senso, un punto fermo al termine di analisi che lasciano aperto qualsiasi scenario: «il Bitcoin potrebbe non avere un futuro ma la blockchain, la tecnologia sottostante, rivoluzionerà le nostre vite». Nell’ordine a essere cambiati potrebbero essere i sistemi di pagamenti, a partire dai micropagamenti, i contratti, i sistemi di memoria in cloud, le quotazioni sui listini azionari, i sistemi di voto alle elezioni, i registri di marchi e brevetti e la gran parte degli adempimenti di responsabilità dei notai. La ragione? La blockchain è un registro diffuso, dove si tiene traccia di ogni movimento senza possibilità di adulterazione, dato che sarebbe necessario alterare le migliaia di nodi su cui le transazioni vengono registrate.
Le aperture di credito sono state moltissime, dall’Economist (con una copertina già nell’ottobre 2015) a Fast Company, che nei giorni scorsi prediceva il 2018 come un anno di impiego di massa della tecnologia della blockchain, citando le prime applicazioni sia da privati sia da governi come quelli dell’Estonia (piattaforma per i dati sanitari e per il voto degli azionisti) e della Georgia (registro dei terreni).
Eppure gli scettici non mancano, perché i limiti da superare sui fronti dell’efficienza e della sicurezza sono ancora molti. Tra le critiche più nette c’è stata, nei giorni scorsi, quella scritta su Hacker Noon da Kai Stinchcombe, dal titolo “Ten years in, nobody has come up with a use for blockchain”. Per dimostrarlo l’autore, che non fa mistero di essere Ceo di una società finanziaria, passa in rassegna tutti i campi di applicazione fin qui testati, e comincia un’opera sistematica di demolizione.
Si comincia con i pagamenti, dove viene messa a confronto la velocità delle transazioni di Bitcoin con quella permessa da società come Visa e Mastercard. I bitcoin permettono sette transazioni al secondo – spiega il post – mentre la Visa al secondo ne permette 60mila. L’energia richiesta per queste sette transazioni al secondo è già oggi 35 volte superiore a quella consumata dai sistemi tradizionali. I quali, però, hanno un altro vantaggio, sottolinea Stinchcombe: possono fornire una serie di servizi a valore aggiunto che permettono alle banche di tracciare tutte le dispute sulle frodi e verificare l’identità degli acquirenti e dei venditori. Ai bitcoin mancherebbe questa componente di fiducia necessaria per diventare dei veri mezzi di pagamento.
«Ho visto un memorabile thread da parte di alcune persone il cui conto in bitcoin era stato prosciugato perché la loro email era stata hackerata e la loro passwod rubata. Erano scioccati dal fatto di non poter fare ricorso! […] Il Bitcoin è quello che il sistema bancario appariva nel Medio Evo – ecco il vostro paradiso libertario»
Anche il discorso libertario che enfatizza la libertà di effettuare transazioni senza la supervisione del governo viene messo in discussione. Con un argomento su tutti: il sistema bancario, supportato dallo Stato (il riferimento è agli Stati Uniti ma potrebbe estendersi agli altri Stati o all’Unione europea), assicura una serie di garanzie che i bitcoin non hanno. Tra queste rientrano l’assicurazione sui depositi fino a 250mila dollari (in Europa 100mila euro); i sistemi di clearing (o compensazione) che controllano gli scambi tra istituzioni finanziarie, per esempio in caso di bonifici da una persona all’altra; i sistemi di investigazione in caso di problemi. «Ho visto un memorabile thread da parte di alcune persone il cui conto in bitcoin era stato prosciugato perché la loro email era stata hackerata e la loro passwod rubata. Erano scioccati dal fatto di non poter fare ricorso!», scrive l’autore. Tra i casi ricordati di perdita secca di bitcoin ci sono la perdita di 400 milioni di dollari da parte di Mt. Gox e poi la chiusura di Bitfinex. «Il Bitcoin è quello che il sistema bancario appariva nel Medio Evo – ecco il vostro paradiso libertario, buona giornata», scrive Stinchcombe.
Sempre in tema di pagamenti, il post ricorda come il sistema Ripple Gateway, usato per le transazioni tra istituzioni finanziarie, negli ultimi 30 giorni (prima del 22 dicembre) avesse mosso circa 2 miliardi di dollari, l’equivalente di 40 secondi sul network interbancario Swift. Mentre per i micropagamenti di pochi centesimi, altra promessa della blockchain, è necessario superare i limiti di lentezza attuali, che richiederebbero ben otto minuti di attesa prima di poter leggere l’articolo acquistato con bitcoin.
Stessi argomenti – poca efficienza e spreco di energia – sono mossi contro i progetti di memoria distribuita e cloud computing, quando messi a confronto con i servizi offerti da operatori come Dropbox, Box.com, Microsoft, Apple e Amazon. Mentre le Ico, ossia le offerte pubbliche di moneta – da molti considerati come alternative alle Ipo, cioè alle quotazioni in borsa, o ai crowdfunding più tradizionali – vengono liquidate come dei titoli azionari meno sicuri.
Anche la narrativa sugli smart contracts ha subito un colpo, dopo la vicenda dell’hackeraggio del veicolo di investimento Dao (Distributed Autonomous Organization)
Che dire invece degli “smart contracts”, ossia i contratti che sono scritti come software invece che in linguaggio legale? Il vantaggio è che si possono codificare direttamente nella blockchain e che i contratti sono “auto-esecutivi”. Questo vantaggio può avere però anche un rovesco. L’articolo si concentra su un caso clamoroso che nel 2016 coinvolse il veicolo di investimento Dao, ossia Distributed Autonomous Organization. A causa di un bug nel software, l’equivalente in ethereum di circa 50 milioni di dollari fu hackerato. Si formò poi un gruppo per bloccare l’attacco e poi il problema si risolse con una “hard fork” di ethereum che permise di rimborsare completamente chi aveva perso i denari virtuali (la vicenda è stata ben ricostruita da Motherboard). «Qual è la lezione? – si chiede Stinchcombe -. Che anche i più entustiatici difensori della blockchain in verità vogliono che ci sia un gruppo di umani che disputino sull’intenzione sottostante dietro a un contratto, piuttosto che lasciare che il software si auto-esegua».
L’ultimo paragrafo è una carrellata di altre possibili applicazioni: dal tracciamento dell’origine dei diamanti ai sistemi di conteggio dei voti, fino alla possibilità di sostituire atti notarili e registri di brevetto. Anche in questi casi le partite non sono certo finite, ma i dubbi avanzati non mancano, soprattutto per quanto riguarda la sicurezza sulla garanzia di anonimato sulle preferenze dei votanti. Se il 2018 sarà davvero l’anno dell’applicazione di massa della blockchain, si potrà verificare se questi limiti siano delle pietre tombali o semplici scalini superabili dall’evoluzione della tecnologia.