Quando nella sua classe di liceo la professoressa di letteratura spiegava Bertold Brecht e la sua stigmatizzazione degli eroi, probabilmente Clint Eastwood era assente. Almeno a giudicare dalla quantità di volte in cui, nellla sua lunga carriera di attore e regista, si è occupato a modo suo di questa categoria: dagli strambi eroi solitari e alteri impersonati negli western di Sergio Leone, passando da quelli di gruppo e drammatici messi in scena in film come Flag of our fathers, fino quelli comuni, inconsapevoli e perfino riservati di Sully e di quest’ultimo15:17 – Attacco al treno (a proposito del titolo, qualcuno prima o poi dovrà spiegarmi perché diavolo non l’hanno tradotto alla lettera, ovvero “Il 15 e 17 per Parigi”).
Eroi per caso, questi ultimi, sia il pilota Sully, protagonista del suo film precedente, sia i tre ragazzotti americani protagonisti — quelli veri, tra l’altro, proprio loro — di questo ultimo. Persone comuni che si trovano al posto giusto nel momento giusto — o sbagliato, dipende dai punti di vista — e agendo tempestivamente per il bene comune, grazie anche all’aiuto della sorte, salvano la propria vita e quella di chi hanno intorno.
Poteva essere un film molto retorico questo 15:17. Esattamente come lo poteva essere Sully, American Sniper e altri mille film di Clint Eastwood, invece, così come gli altri, in fondo non lo è quasi per niente grazie a due scelte molto funzionali di Eastwood. La prima, già messa in pratica in Sully, è far durare i tre minuti più importanti del film — quelli in cui, intorno alle 17.45, sul treno per Parigi, i tre californiani immobilizzarono e disarmarono Ayoub El Khazzani, 25 anni, che armato di un fucile automatico e di 300 cartucce stava per compiere un massacro — come i tre minuti reali, senza dilatazioni che avrebbero grondato di retorica da ogni poro.
La seconda, che prima di entrare in sala desta non poche preoccupazioni, è certamente l’aver scelto come interpreti sul serio quei tre, rimettendoli su quel treno e riuscendo così, in maniera inaspettata, a tirar fuori credibilità e misura in un contesto dove mandarla in vacca era un attimo.
Come in Sully, insomma, anche qui Eastwood riesce a dribblare la retorica evitando di concentrarsi e di celebrare i secondi dell’azione, ma raccontando il contesto, ovvero la storia dell’amicizia tra i tre, iniziata alle elementari. Tanto li conosce gli eroi, Clint, che evita di raccontarne l’eroismo in sé, ma anzi, gode nel mostrarli sempre e comunque sfigati, emarginati dalla meritocrazia americana che li bolla fin da piccoli come ribelli, agitati, incapaci di concentrarsi, inabili al servizio militare in aviazione e via così. Non è la prima volta, d’altronde, che Clint sceglie di santificare l’americanità in contrasto con l’americanità stessa.
E ancora, come in American Sniper, riesce a piazzare un colpo dove altri suoi colleghi sarebbero crollati miseramente. E lo fa con la semplicità di un videomaker dilettante: giustapponendo nel finale le immagini reali della cerimonia di conferimento della Legion d’Onore ai tre americani (più un inglese) da parte dell’allora Presidente francese François Holland. Un colpo che non vale molto a livello cinematografico, probabilmente, ma che fa strike e dimostra in maniera lampante quanto la realtà sia diecimila volte più retorica e paradossalmente irrealistica della sua rappresentazione cinematografica.
Insomma, se la notizia brutta — ma prevedibile — è che 15:17 non ce lo ricorderemo certo come uno dei capolavori di un genio della regia come Eastwood, quella buona è il vedere che Clint, a quasi novant’anni suonati, ha ancora la voglia di imbarcarsi in un progetto pazzo come questo riuscendo a rimanere Clint Eastwood. Riuscendo cioè a non perdere nulla della sua capacità di corrodere il conservatorismo beota americano da quel suo punto di vista — così strano e prezioso di questi tempi di trumpismo — del suo essere contemporaneamente un conservatore durissimo e purissimo, ma insieme un grandissimo umanista.