Erdogan Economy: così il “rais” turco tiene in pugno la Turchia (e schiaccia i suoi oppositori)

Un mix di nazionalismo, conservatorismo religioso e successo economico ha permesso ad Erdogan di tenere in pugno la Turchia in questi anni. Silenziosamente sta mettendo sotto suo diretto controllo le maggiori società pubbliche della Turchia, ma a farne le spese sono i cittadini

Kasımpaşa è il genere di quartiere di Istanbul di cui nelle guide turistiche non si parla, non ci sono edifici storici famosi e pochi conoscono le sue strade strette e ripide con vista mozzafiato sul Corno d’Oro. Eppure qui è nato, nel 1954, l’uomo più potente e ormai anche il più ricco della Turchia, Recep Tayyip Erdogan.

A Kasimpaşa anche lo stadio è intitolato a suo nome e ai comizi i sostenitori lo attendono sul Bosforo scaldando l’atmosfera come una tifoseria da curva sud, con un repertorio di inni e di cori che non finisce mai. Al suo arrivo esplodono. Le sue foto compaiono ovunque: gigantografie sui palazzi ma anche ritratti più modesti nelle botteghe e per chi non ne avesse abbastanza al cinema di quartiere, per mesi, l’anno scorso hanno proiettato “Reis”, la sua biografia, una mega produzione da otto milioni di dollari dell’imprenditore Temel Kankiran, che però al botteghino non ha reso quanto ci si aspettava.

Ma il culto della personalità è salvo: solo l’immagine di Ataturk nella Turchia contemporanea può fare concorrenza a quella del presidente che dopo il colpo di stato fallito del luglio 2016 e il referendum del 2017 sulla riforma costituzionale può aspirare a guidare il Paese fino al 2034.

Sempre che la guerra contro i curdi siriani, i “terroristi” alleati degli americani si riveli un successo. Ad Ankara la diplomazia americana tenta di evitare un frattura insanabile tra due alleati della Nato che si fronteggiano in Siria.

Il film Reis comincia proprio qui a Kasimpasa dove è nato 63 anni fa. Cresciuto in una famiglia tradizionale originaria di Rize sul Mar Nero, è proprio a Kasimpaşa che Tayyip Erdogan muove i primi passi da calciatore per arrivare a giocare nei semiprofessionisti. Ma le modeste condizioni della famiglia lo obbligano per mantenersi a vendere ciambelle e limonate. E’ qui che entra in politica nella sezione locale dell’Unione nazionale degli studenti, un gruppo di azione anti-comunista e nel 1974, tra l’altro, scrive e interpreta il ruolo di protagonista nella commedia “Maskomya”, che presenta giudaismo e comunismo come il male assoluto.

Ma il vero salto avviene con l’ingresso nel movimento islamista di Necmettin Erbakan: nel 1991 viene eletto in Parlamento e tre anni più tardi sindaco di Istanbul, rivelandosi un leader pragmatico, impegnato a risolvere problemi concreti come il traffico, l’inquinamento e l’approvvigionamento di acqua.

Erbakan, fatto fuori da un golpe “bianco” dei militari nel 1997 dopo essere diventato primo ministro, è stato il suo grande méntore ma Erdogan frequentò anche con assiduità l’imam Mehemet Zahid Kotku, un sufi che guidava la confraternita della Naqshbandyya, di cui fu membro, oltre al presidente Turgut Ozal, anche il braccio destro di Saddam Hussein, Izzat Ibbrahim al Douri, che in questi anni ha forgiato l’alleanza tra ex ufficiali baatisti e l’Isis fondando un esercito con il nome della confraternita.

In Medio Oriente ci sono collegamenti che possono sorprendere soltanto perché li ignoriamo.

Solo l’immagine di Ataturk nella Turchia contemporanea può fare concorrenza a quella del presidente che dopo il colpo di stato fallito del luglio 2016 e il referendum del 2017 sulla riforma costituzionale può aspirare a guidare il Paese fino al 2034. Sempre che la guerra contro i curdi siriani, i “terroristi” alleati degli americani si riveli un successo

Erdogan successivamente ha stretto legami con l’imam Fethullah Gulen, diventato dopo il golpe del 15 luglio 2016 la bestia nera del Reis ma che nel decennio scorso aveva messo al servizio dell’Akp un’oliata macchina di propaganda contribuendo in maniera decisiva ai successi elettorali del partito.

Nel 1998 viene arrestato per aver pubblicamente declamato alcuni versi del poeta Ziya Gokalp in cui tra l’altro si legge che “le moschee sono le nostre caserme e i minareti le nostre baionette”, Uscito dal carcere, Erdogan fonda l’Adalet ve Kalkinma Partisi (Akp), il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo, il partito islamico che nel 2002 vince le elezioni. Riabilitato nel 2003 assume la carica di premier e nel 2014 va alla presidenza sostituendo il compagno di strada Abdullah Gul.

Di quel gruppo dirigente che diede vita all’Akp ai vertici del partito o nel governo non c’è più nessuno: Erdogan ha fatto fuori tutti i possibili concorrenti o anche soltanto quelli che osavano criticarlo.

Qui a Kasimpasa trova però soltanto sostenitori fedeli ed entusiasti: il suo quartiere e l’intera città sono il suo grande palcoscenico. Figlio di una modesta famiglia di immigrati è diventato un capo ricco, potente. Per metà del Paese è il simbolo di quei cittadini della Turchia profonda che sono arrivati a farsi strada in una metropoli che in vent’anni ha triplicato i suoi abitanti, per l’altra metà è soltanto un altro detestabile “Reis” mediorientale.

E come ogni raìs Erdogan ha messo sotto controllo tutto, l’economia in particolare. E’ un aspetto questo un po’ trascurato. Erdogan nell’ultimo anno, mentre nel paese avvenivano 60mila arresti, ha completato il suo contro-golpe mettendo sotto diretto controllo le maggiori società pubbliche della Turchia, dalle linee aeree alle telecomunicazioni, alle banche.

La scalata di Erdogan agli “asset” della Turchia è avvenuta quasi nel silenzio, coperta dal clamore delle cronache delle battaglie dell’esercito in Siria, dai suoi scontri con la diplomazia occidentale, dai suoi viaggi in Francia e in Italia da Papa Francesco, dal contenzioso per il blocco della nave italiana Saipem per le esplorazioni del gas a Cipro.

Oggi se qualcuno osa toccare gli interessi “nazionali” della Turchia in realtà colpisce direttamente il presidente.

Erdogan ha messo le mani sul “tesoro” della Turchia. Con una mossa a sorpresa qualche tempo fa ha trasferito le quote di controllo della compagnia aerea Turkish Airlines, della Halkbank, della società petrolifera Tpao e della Turkish Telekom nel Fondo sovrano Swf (Sovereign wealth fund). Il Fondo era stato istituito nell’agosto scorso con una modesta dotazione di 13 milioni di dollari e adesso controlla partecipazioni per miliardi.

Erdogan nell’ultimo anno, mentre nel paese avvenivano 60mila arresti, ha completato il suo contro-golpe mettendo sotto diretto controllo le maggiori società pubbliche della Turchia, dalle linee aeree alle telecomunicazioni, alle banche. La scalata di Erdogan agli “asset” della Turchia è avvenuta quasi nel silenzio

È diventato una sorta di “banca” di Erdogan. Il presidente ha indicato i cinque membri del consiglio d’amministrazione, ovviamente tutti dei fedelissimi, e a capo dell’istituzione ha proiettato Yigit Bulut, un personaggio eccentrico salito alla ribalta durante la rivolta di piazza Taksim quando affermò convinto che stavano tentando di uccidere Erdogan con la telecinesi. Messo per qualche tempo in seconda fila, Bulut è tornato alla ribalta con le purghe seguite al 15 luglio 2016 e la caccia ai gulenisti. Non solo sono stati fatti fuori migliaia di funzionari, militari, insegnanti e giornalisti ma le autorità hanno sequestrato beni e aziende di presunti golpisti o simpatizzanti per un valore stimato di 10-15 miliardi di dollari.

Oltre a Bulut, Erdogan ha riabilitato anche Egemen Bagis, ex ministro per gli affari europei, costretto alle dimissioni per corruzione nel 2013, e che lo ha accompagnato al pranzo all’Excelsior con gli imprenditori italiani: lui è stato per anni il referente governativo nei rapporti strategici, in particolare con Finmeccanica.

Dai grandi appalti all’informazione tutto passa dal “Reis”. La costruzione del terzo aereoporto sul Bosforo è affidata alla Limak e a Kalyon proprietaria della Turkuwaz Medyaa che possiede 4 canali tv, 4 quotidiani (tra cui Sabah), 11 riviste e due portali di notizie. Il fondatore di Kalyon, Hasan Kalyoncu, era strettamente legato a Erdogan, uno dei personaggi di primo piano dei partiti islamisti e conservatori della Turchia. I legami con la famiglia sono ormai di parentela: la Turkuwaz Madya è diretta da Serat Albayrak, il cui fratello Berat è il genero di Erdogan.

Ma come funziona la Erdogan Economy? Il potere politico promuove le grandi opere pubbliche come segnale di straordinaria crescita e sviluppo a costo zero per lo stato. In realtà è lo stato a fare da garante e nel caso i progetti, come i ponti e i tunnel sul Bosforo, non raggiungessero gli introiti prestabiliti sarebbe lo stato a rimborsare le imprese appaltatrici: in poche parole è il cittadino a pagare anche per i pedaggi mai usufruiti. E’ la regola dello schema “costruisci-gestisci -cedi”. Non solo, i finanziamenti alle aziende costruttrici arrivano in buona parte da banche pubbliche: si tratta di decine di miliardi di dollari. In Turchia sono aperti cantieri per un valore di 40 miliardi di dollari ma molti rischiano di chiudere se non saranno rifinanziati.

Eppure l’economia Erdogan regge, almeno secondo le cifre ufficiali, non come prima ma tiene. A partire dal 2002, la Turchia ha registrato altissimi tassi di crescita (con punte eccezionali come il 9,5% del 2010 e l’8,8% del 2011), Dal 2012 però ha subito un rallentamento, tra il 2% ed il 4%, valori inferiori alla soglia del 5% necessaria per fare della Turchia, come vorrebbe Erdogan, uno dei 10 Paesi più sviluppati al mondo entro il 2023, anno in cui ricorre il centenario della Repubblica. Ma questi sono obiettivi più a lungo termine. “Erdogan ha tenuto in pugno il Paese in questi anni con un mix di nazionalismo, conservatorismo religioso e di successo economico: i debiti si accumulano, sia quelli pubblici che delle imprese, ma ha un controllo così pervasivo sull’economia e sulla Banca centrale che sarà in grado di distribuire ancora soldi, quelli che servono a vincere le elezioni presidenziali del 2019”, dice Soli Ozel, professore di Relazioni Internazionali all’Università Kadir Has di Istanbul.

Ma per restare in sella e vincere le elezioni con un margine confortante. Erdogan deve convincere gli elettori di Istanbul e Ankara, le due principali città del Paese che a maggioranza non hanno votato per lui nel referendum costituzionale del 2017. La sua roccaforte sul Bosforo, da dove è partito per la scalata al potere, non deve tradirlo.

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