I poveri ci fanno ribrezzo perché ci ricordano che presto lo saremo anche noi

La povertà ci terrorizza, è l'anello che non tiene della società e dimostra che l'etica capitalista — quella del self made man che col lavoro si nobilita e si riscatta — si regge su un'illusione senza la quale il sistema non starebbe in piedi: la povertà è come una malattia per il capitalismo

Nel suo reportage intitolato Il popolo dell’abisso, scritto dopo aver passato l’estate del 1902 nell’East End di Londra, Jack London descrive in maniera brutale la condizione degli abitanti dei quartieri più poveri della capitale britannica all’alba del Novecento. Tra le disgrazie e il disagio a cui assiste lo scrittore c’è una dinamica che lo colpisce in modo particolare: in pieno giorno, i giardini dell’East End sono popolati da decine di uomini e donne mezzo addormentati.

A un certo punto London racconta di una passeggiata in uno di questi parchetti e del suo stupore nel vedere come, in pieno giorno, ci siano così tante persone addormentate per terra, sulle panchine o mezzo ciondolanti. «Era proprio questo torpore diffuso a colpirmi», scrive. «Nove su dieci dormivano, o cercavano di prendere sonno: perché? Non mi ci volle molto per scoprirlo: è il potere costituito a vietare che la gente senza fissa dimora dorma, di notte».

Quello che ai nostri occhi potrebbe apparire come l’evidenza del classismo esasperato della società vittoriana, un ritratto lontano e sbiadito nel tempo, però, non è affatto né lontano, né sbiadito, perché, oltre un secolo dopo e proprio in Inghilterra, si torna a parlare di poveri, di panchine e di degrado. All’inizio di febbraio, infatti, in vista delle principe Harry, il consiglio della Royal Borough of Windsor and Maidenhead ha proposto di aumentare le multe per comportamenti anti sociali.

«Era proprio questo torpore diffuso a colpirmi», scrive. «Nove su dieci dormivano, o cercavano di prendere sonno: perché? Non mi ci volle molto per scoprirlo: è il potere costituito a vietare che la gente senza fissa dimora dorma, di notte»

Attenzione però, perché quando a Windsor scrivono “comportamenti antisociali” non significa che dobbiamo pensare subito a omicidi, stupri, violenze di ogni tipo, vandalismi. E infatti in questo caso non si sta parlando né di reati contro le persone né contro le proprietà. «Il consiglio spera», riporta la BBC il 12 febbraio, «che questa vigorosa strategia ridurrà i “rough sleepers” del 50 per cento entro il marzo del 2019». Ecco cosa sono i comportamenti anti sociali: il non avere una casa, il non avere un lavoro e l’essere costretti a dormire per strada.

La verità è che il nostro modello di società, capitalista e liberista, detesta i poveri e un po’ li teme. Per questo li nasconde, li chiama degrado urbano, li ghettizza, li emargina, le esclude. Perché sono l’anello che non tiene e che dimostra che l’etica capitalista — quella del self made man che col lavoro si nobilita e si riscatta — si regge su un’illusione senza la quale il sistema non starebbe in piedi. La povertà è come una malattia per il capitalismo. E infatti, esattamente come fa con i malati ospedalizzandoli, caccia i poveri dalle strade e dai centri delle città, cacciandoli nei sobborghi, negli slums, nelle banlieue.

I poveri ci fanno paura perché ci ricordano che solo in pochi ce la fanno e che gli altri siamo noi. E non è una considerazione che vale soltanto per la società britannica, vale anche per l’Italia, dove la lotta contro il degrado cerca di nascondere la povertà, come la polvere sotto il tappeto, o addirittura la criminalizza, come è successo nella benestante Como, alla vigilia di Natale, quando il sindaco aveva firmato un’ordinanza simile che vietava di distribuire pasti caldi ai senza tetto durante le vacanze di Natale.

Cose simili accadono di continuo: dalla criminalizzazione di piazza Vittorio, a Roma, quartiere multietnico che proprio nei giorni scorsi è stato ritratto da Antonio Polito sul Corriere in questo modo: «Piazza Vittorio è diventata brutta, sporca e cattiva, con le siringhe al posto dei fiori, i pali che fanno la guardia agli spacciatori, i calzini appesi al roseto, la gente che si lava i piedi alle fontanelle, le panchine bucate una stecca una stecca no». Un modo tendenzioso, a quanto invece racconta Alessandro Gilioli, che ci abita.

I più sfortunati di noi ci fanno schifo, ci danno il voltastomaco, non li vogliamo vedere nelle nostre strade o nelle nostre piazze, rivendichiamo il nostro diritto di fare come se non esistessero. Sono in molti a pensarlo In questa frase, oltre a qualche tonnellata di grettezza, c’è un paradosso gigantesco

E quindi ci raccontiamo che i poveri disturbano il decoro, che rovinano l’aspetto delle nostre piazze, che infastidiscono gli abitanti vip (sic), che rovinano la stagione degli acquisti. I poveri, gli esclusi, gli emarginati, i più sfortunati di noi ci fanno schifo, ci danno il voltastomaco, non li vogliamo vedere nelle nostre strade o nelle nostre piazze, rivendichiamo il nostro diritto di fare come se non esistessero. Sono in molti a pensarlo In questa frase, oltre a qualche tonnellata di grettezza, c’è un paradosso gigantesco.

Dando un’occhiata alle statistiche, infatti, i poveri stanno aumentando sia in valore assoluto che in valore relativo. Insomma, senza andarci troppo per il sottile, i poveri dei prossimi decenni rischiamo di essere noi. Prendiamo l’Italia, per esempio: l’ultimo rapporto Istat riferito al 2016 parla di quasi un terzo della popolazione a rischio povertà o esclusione sociale. Esattamente di 18 milioni 136 mila 663 persone, che per fortuna non sono tutti senza fissa dimora, ma che alla fine di ogni mese arrivano a stento e, se dovessero ammalarsi o perdere la fonte di quel poco che gli entra in cassa al mese, sarebbero per strada. Un numero che, in prospettiva, potrebbe gonfiarsi ulteriormente nei prossimi anni, vista l’altissima incidenza di precarietà e di sotto occupazione giovanile. 18.136.663. Più degli spettatori medi di una partita dei mondiali dell’Italia, per dire.

Ogni tanto, le immagini fanno più riflettere dei dati. L’immagine è questa e risale a qualche sera fa. Davanti a un cinema del centro di Milano c’era un uomo sdraiato su un materasso, imbozzolato in un sacco a pelo, con alcune altre coperte che lo riparavano dal vento. Non stava dormendo, stava guardando qualcosa sul un tablet da cui uscivano gli auricolari bianchi che indossiamo tutti ogni giorno. Incredibile. Un povero con il tablet? C’ha proprio ragione Salvini, veniva da pensare. Nei giorni seguenti, raccontando la scena ad amici, genitori, colleghi, la prima reazione di molti di loro è stata la stessa, uno sdegno salviniano, un’indignazione da “ma come, dormi per strada eppure ti guardi Netflix sul tablet?”.

È questo quello a cui ci siamo ridotti dopo anni di allenamento al cinismo e al rifiuto: non riusciamo più a vedere quella scena se non come sopruso. Non riusciamo a pensarla nel verso più umano: ovvero che quel tablet, quell’uomo, non l’aveva rubato e non glielo aveva nemmeno regalato la Boldrini, come forse avrebbe pensato Salvini. Quell’uomo, probabilmente, quel tablet se l’era comprato, come tutte le persone che definiamo “normali”, come noi. Perché quell’uomo, qualche mese prima di quella sera, probabilmente, era proprio come me e te. Forse è proprio per questo che non lo vogliamo vedere, perché ci ricorda che la povertà riguarda tutti noi e ci riguarda sempre più da vicino. E cazzo, se ci terrorizza.