Tutti conoscete Jack Kerouac. Il Lancillotto dei Beat, lo scrittore che con On the Road, probabilmente, non cambia il modo di fare letteratura (benché i tentativi di malcerta imitazione non si contino), ma di certo imprime una svolta ai ‘costumi’ dell’uomo occidentale. Kerouac – brutale semplificazione – viene brandito, come un ‘Che’ Guevara qualsiasi – ma il savio Jack, pur facendone di ogni, non ha mai ucciso nessuno – come paladino della rivoluzione sociale, della libertà costi quel che costi, dell’epica dello svacco a suon di droghe rimbombanti, ‘maledettismo’ d’annata – e un tanto passatista – e Buddha sul comò, alla bisogna. Palle. O meglio. Oltre a questo – la sfacciata facciata – c’è molto altro. L’editore statunitense Shambhala, specializzato in speculazione buddhista, ha appena pubblicato Heard to Be a Saint in the City: the Spiritual Visions of the Beats (pp.208, $16.95), a cura di Robert Inchausti, prof emerito alla California State Polytechinic University, versato, soprattutto, nell’opera di Thomas Merton, lo scrittore trappista, trapper biblio-spirituale. Il libro, che mima una canzone di Bruce Springsteen (It’s Hard to Be a Saint in the City) è una specie di sussidiario ‘beat’: Inchausti, infatti, dopo una introduzione alquanto intensa, allinea, per capitoli, un florilegio di citazioni – tratte, per lo più, da interviste più o meno dimenticate e saggi – di Kerouac, Ginsberg, Norman Mailer, Leonard Cohen, Burroughs & Co. La sintesi è che il fenomeno beat fu un bel casino. In mezzo c’è di tutto, spinte utopiche ed edoniste e conservatorismo: Ginsberg, per dire, fondeva l’erotismo di Walt Whitman al nichilismo buddhista; Burroughs era un dadaista lisergico; a Gary Snyder garbavano i gorgheggi dei nativi americani, qualcuno gingillava con il marxismo, quasi tutti adoravano David Thoreau (quello di Walden) e imitavano il jazz. E… Jack Kerouac? Beh, Kerouac era un buon cristiano. Cresciuto, come sanno anche le mummie, in una famiglia profondamente cattolica, Kerouac, a cui – come a noi tutti – non andava a genio il bigottismo diffuso come il napalm negli States degli anni Trenta e Quaranta, cercò, nei suoi vigorosi vagabondaggi – ricordate il detto evangelico, Mc 16, 15: Gesù non dice, mettete cattedrali e radici e dormite sereni, ma “Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura” – di fondere il Sutra del diamante del Buddha al ‘Discorso della montagna’ del Cristo. Le tesi – costellate di testi – di Inchausti hanno mandato in brodo Scott Beauchamp che in un articolo uscito su The American Conservative (“Debunking the Caricature of Jack Kerouac the Nihilist”) esaspera i toni: Kerouac è “cattolico mistico poeta… destinato ad essere frainteso”, Kerouac “non era un edonista e non era un epicureo. Per quanto siano discutibili i suoi metodi e la sua teologia, egli era certo che la vita avesse uno scopo spirituale”. Ciliegina sul concetto: “Kerouac è stato uno dei più umili e devoti scrittori americani del XX secolo”, “non voleva diventare un Philip Roth; voleva essere una versione jazz di Suor Juana Inés de la Cruz”.
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