«Tutto mi potevo aspettare nella vita, ma questo va al di là di ogni immaginazione. Se fossi fatalista direi che è destino, se fossi religioso direi che è opera di Dio per mettermi alla prova». Rinchiuso in carcere thailandese, Denis Cavatassi scrive così alla famiglia in Italia. Qualche anno fa è stato condannato a morte per un omicidio mai commesso. Le lettere sono l’unico modo per comunicare con i parenti, ma non sempre arrivano. «Ho ancora davanti agli occhi e nelle narici le condizioni igieniche assolutamente indegne di questo luogo – così un’altra pagina – Siamo duecento in una cella che può contenerne meno della metà. Se di notte mi giro su un fianco non trovo più lo spazio per rimettermi supino. Mi rendo conto solo adesso che il destino possa riservare delle esperienze che vanno oltre ogni immaginazione». La sua è una storia drammatica e poco conosciuta. Una delle tante vicende degli oltre tremila italiani detenuti nelle carceri di mezzo mondo, spesso in condizioni disumane.
In questi giorni l’incubo di Cavatassi è arrivato in Parlamento. La conferenza stampa organizzata a Palazzo Madama è forse l’ultimo atto della commissione per i diritti umani presieduta da Luigi Manconi. Nelle ultime settimane l’esponente dem ha presentato due interrogazioni al governo per accendere i riflettori su questa incredibile storia di ingiustizia e salvare la vita al nostro connazionale. «In questa vicenda ci sono due aspetti da sottolineare» racconta Manconi. «Davide Cavatassi non ha ricevuto in alcun modo un processo equo. E soprattutto le condizioni della sua detenzione sono a dir poco orribili: vive una quotidiana violazione dei diritti umani più elementari e una mortificazione costante della sua dignità». Romina è la sorella di Davide. Presente all’incontro con i giornalisti trattiene a stento le lacrime. È lei a ricordare le tappe di una vicenda che non esita a definire kafkiana.
«Ho ancora davanti agli occhi e nelle narici le condizioni igieniche assolutamente indegne di questo luogo. Siamo duecento in una cella che può contenerne meno della metà. Se di notte mi giro su un fianco non trovo più lo spazio per rimettermi supino. Mi rendo conto solo adesso che il destino può riservare delle esperienze che vanno oltre ogni immaginazione»
L’inferno dell’agronomo italiano inizia nel 2011. Dopo aver trascorso un periodo di volontariato con una ong italiana, Cavatassi decide di prendersi una vacanza e girare il Sud Est asiatico. In Thailandia conosce Luciano Butti, la vittima. Titolare di un ristorante distrutto dallo tsunami, è in cerca di soci per ristrutturare l’azienda. Cavatassi e il suo compagno di viaggio si innamorano del paese e accettano di rilevare una piccola quota dell’attività. L’idea è quella di continuare a lavorare in Italia e trasferirsi solo alcuni mesi l’anno a Pukhet. Il progetto però dura poco: quasi subito Davide conosce la donna che diventerà sua moglie e da cui, pochi anni dopo, avrà una bambina. E si stabilisce in Asia. L’assassinio del socio cambierà per sempre la sua esistenza. Subito dopo la tragedia – ricordano i familiari – Cavatassi si reca spontaneamente dalla polizia. Si mette a disposizione, vuole aiutare le autorità nell’indagine, ma in poche ore si ritrova sotto accusa. Viene interrogato senza un traduttore, un avvocato, nemmeno un funzionario della nostra ambasciata. E finisce in arresto. Le indagini sono superficiali: non viene perquisita la sua abitazione né il suo computer. La moglie non viene convocata e non vengono ascoltati i membri dello staff del ristorante. «La sentenza di primo grado era scritta su quattro o cinque pagine» racconta oggi il suo legale Alessandra Ballerini. «Questo dimostra quanto approfondite siano state le indagini. Non ci sono riscontri, non viene individuato nessun testimone oculare». Cavatassi è considerato il mandante dell’omicidio. «In questo caso tutto dovrebbe essere nel movente, ma il movente non esiste».
«La sentenza di primo grado era scritta su quattro o cinque pagine» racconta oggi il suo legale Alessandra Ballerini. «Questo dimostra quanto approfondite siano state le indagini. Non ci sono riscontri, non viene individuato nessun testimone oculare. Cavatassi è considerato il mandante dell’omicidio, ma il movente non esiste»
La carcerazione è drammatica. Per un mese e mezzo l’italiano è rinchiuso con i ceppi ai piedi. La famiglia prova a spedire medicinali e libri, che non sempre vengono recapitati. «Quando sono riuscito a incontrarlo sono rimasto inorridito – racconta il fratello Adriano – Nel penitenziario ho assistito a scene che avevo visto solo nei film. Ho taciuto molti dettagli anche alla mia famiglia. Tante persone al limite della sopravvivenza. Davide dormiva per terra in una cella di pochi metri quadri, non riusciva nemmeno a stendersi per quanta gente c’era». Dopo circa cinque mesi, però, Cavatassi viene rilasciato su cauzione. Potrebbe tornare in Italia, ma decide di rimanere in Thailandia. Ormai la sua vita è lì. Convinto della propria innocenza non cerca di sottrarsi alla giustizia. E questo forse è il suo più grande errore. In primo grado viene condannato alla pena di morte, sentenza confermata in secondo grado. Un dramma che arriva al termine di un processo, insiste Manconi, «in cui le garanzie dell’imputato sono state gravemente e costantemente violate». Il destino dell’agronomo adesso è appeso a un filo. Come prevede la legge, l’ultima parola spetta alla locale Corte Suprema. Le certezze sono poche. La sentenza potrebbe arrivare tra pochi mesi o un paio di anni. Intanto Cavatassi resta in carcere. La sorella Romina racconta di essere tornata in Thailandia durante il periodo natalizio. Il 5 gennaio è riuscita a entrare nel penitenziario dove è rinchiuso Davide, insieme alla moglie e alla piccola bambina di sette anni. Eppure non sono riuscite a incontrarlo: gli è stato concesso di parlare al detenuto solo attraverso un collegamente video.
La situazione giudiziaria thailandese non autorizza troppo ottimismo. Se l’ultima condanna a morte è stata eseguita otto anni fa, alla fine del 2016 le carceri del paese asiatico ospitavano ancora 427 persone in attesa della sentenza capitale. Ventiquattro di loro erano stranieri. Ecco perché diventa fondamentale l’impegno delle nostre istituzioni per fare pressioni e tutelare i diritti del nostro connazionale. La speranza è che Cavatassi venga scagionato da ogni accusa. Ma i familiari si stanno organizzando per ogni eventualità. Negli anni Ottanta l’Italia ha sottoscritto un accordo di cooperazione con la Thailandia che permette ai detenuti, una volta concluso l’iter giudiziario, di scontare la pena nel proprio paese. In caso di condanna, l’obiettivo sarà ottenere il trasferimento di Cavatassi in patria.