Da anni abbiamo a che fare con la TV del dolore, quel tipo di televisione per cui chiunque butti la faccia in video, anche solo per partecipare al gioco dei pacchi o cucinare un uovo al salmì, a un certo punto deve mettersi a frignare.
In teoria, il doping delle lacrime dovrebbe servire ad alzare gli ascolti; in pratica, lo stucchevole espediente trasforma l’intrattenimento in farsa destinata ad una platea di inermi telemorenti ultrasettantenni che gli autori televisivi sfruttano senza pietà.
Da qualche tempo, purtroppo, la pratica è stata esportata nel mondo del giornalismo online, dove la formula è stata declinata per venire incontro al pubblico del web, che rispetto a quello televisivo è più giovane e attivo. Al posto di Carmine – babbo avvinazzato in cerca di riscatto – o Rosa –che invoca il perdono della figlia Angela per non averle mai detto quando le vuole bene – sul web spopola la figura del “Povero Expat”, il giovane italiano o la giovane italiana costretta da un destino cinico e baro a lasciare la petrosa Italia per andare in cerca di fortuna altrove.
Trasferirsi all’estero, come sa chi lo ha fatto davvero (incluso il sottoscritto, che nel 2012 scelse di andare a vivere a New York) è nella stragrande maggioranza dei casi la cosa migliore che si possa fare nella vita.
Il doping delle lacrime dovrebbe servire ad alzare gli ascolti; in pratica, lo stucchevole espediente trasforma l’intrattenimento in farsa destinata ad una platea di inermi telemorenti ultrasettantenni che gli autori televisivi sfruttano senza pietà
Il più grande nemico dell’Uomo Moderno, come insegna il genio di Paolo Villaggio, è la routine, il ritornello sempre uguale di sveglia-caffè-barba-e-bidet per poi appollaiarsi su una scrivania a fissare un monitor con il cuore stretto in una morsa, senza nemmeno una signorina Silvani da inseguire. L’espatrio, al contrario, scardina la consuetudine, obbliga a rimettere tutto in discussione, fa assumere alla vita l’imprevedibile ritmo swing della musica jazz.
L’effetto taumaturgico del trasferirsi è vero sempre, a prescindere da ogni contingenza anagrafica o geografica: basta vedere come sono giulivi gli inglesi in là con gli anni che si trasferiscono in Toscana per una terza età fatta di sbornie di Chianti nel primo pomeriggio. Figuriamoci se alla fortuna di poter espatriare si aggiunge quella di avere ancora gran parte della vita davanti, e se per giunta il Paese che si lascia alle spalle è l’Italia, unico luogo sulla Terra in cui la gioventù è una colpa da espiare. Anche perché oggi, nel 2018, abitiamo un’epoca fatta di tecnologie che, solo trent’anni fa, sembravano il frutto di un romanzo di fantascienza.
Il videotelefono immaginato nel 1989 da “Ritorno al Futuro 2” oggi si chiama Skype, funziona meglio e per un incomprensibile miracolo è addirittura gratis. Fino a pochi anni fa, trasferirsi voleva dire rinunciare a condividere qualsiasi tipo di quotidianità con le persone con cui si era cresciuti: oggi tra Instagram, Facebook e tutto il resto siamo aggiornati in tempo reale. Per non parlare della comodità offerte dal neoliberismo e dalla globalizzazione delle merci, che per chi vive in Italia vogliono dire precarietà e perdita di potere salariale, mentre per chi vive all’estero significano la possibilità di trovare un espresso fatto come Dio comanda ad ogni angolo di strada.
Fino a pochi anni fa, trasferirsi voleva dire rinunciare a condividere qualsiasi tipo di quotidianità con le persone con cui si era cresciuti: oggi tra Instagram, Facebook e tutto il resto siamo aggiornati in tempo reale
Insomma, l’Expat Italiano avrebbe tutte le ragioni per sentirsi come il tizio del Candido di Voltaire, quello convinto di vivere nel migliore dei mondi possibili. E invece no. Il web del dolore vuole che l’Expat sia un individuo torvo, incancrenito dalla vita, avvelenato contro una fantomatica massa di individui malvagi che con il loro agire corrotto li ha costretti a un esilio più doloroso di quello di Dante. Un ottimo esempio lo si è letto di recente sull’HuffPost dove troviamo il J’accuse di Carlotta, donna di Pesaro espatriata in Germania per fare l’infermiera. Carlotta ha un lavoro che le piace, guadagna bene e un sacco di amici: Carlotta dovrebbe essere una donna felice. E invece Carlotta, nella sua lunga intervista mena fendenti a destra e a manca contro quelli (chi, di grazia?) colpevoli di “giudicarla superficialmente” senza sapere nulla “delle difficoltà che è stata costretta ad affrontare”.
La ragazza racconta la sua vita con toni che, per restare in Germania, avrebbero fatto impietosire il dottor Mengele: il dramma di dover tenere da parte un centinaio di euro per poter prendere un aereo in caso di emergenze, la tragedia –a trent’anni! – di non poter stringere i propri genitori in un caldo abbraccio la sera, quei mesi passati in un pianto continuo, pensando al lontano Paese natio, soffrendo per non poter parlare “la mia lingua”. Non è un caso isolato: la vita del Povero Expat, nel web del dolore, viene sempre raccontata come una specie di inferno terrestre, anche se dell’inferno non ha assolutamente nulla.
Negli Stati Uniti fare un lavoretto come cameriere o “busboy” è quanto di più normale ci possa essere: Los Angeles e New York brulicano di uomini e donne di tutte le età che si mantengono come possono per decenni nel tentativo di realizzare i proprio sogni. Ma nella narrazione tragica degli Expat nostrani – molti dei quali sono probabilmente gli stessi che, in Italia, ci tengono a essere chiamati “dottori” dal barista – questa vita assolutamente normale si trasforma in un’epopea Dickensiana. E infatti Carlotta racconta, con i lacrimoni agli occhi, di lavori umilissimi in cui “mi sono persino presa le pulci”. Sta per caso parlando di turni massacranti in un circo russo itinerante a pulire le gabbie delle tigri? No. Sta parlando di un banale lavoro come cameriera in un hotel, cosa che i giovani americani o francesi farebbero senza pensarci due volte.
Davanti a racconti del genere, tutti uguali, che nelle intenzioni dovrebbero essere “esemplari” ma che finiscono sempre per scadere nel ridicolo, sarebbe ora che i Poveri Expat – e con loro i giornalisti che cucinano le loro storie come fossero tutti concorrenti di “C’è Posta per te” – capissero che non hanno nulla, assolutamente nulla per cui fare le vittime. Vivere lontano dalla propria cameretta, rinunciare al sugo di mammà nei maccheroni, vedere nonna solo a Natale e d’estate è esattamente quello che – senza battere ciglio – fanno i giovani di tutti i Paesi Occidentali, che magari non cambiano Paese ma si spostano di continuo da una città all’altra.
Si chiama diventare adulti: continuare a lamentarsi vuol dire invece confermare in pieno quella definizione di bamboccioni che tanto da fastidio. Non si smette di essere tali quando ci si trasferisce all’estero e si fanno, per pochi mesi, le pulizie in un hotel: si smette di essere bamboccioni quando si diventa cittadini del mondo, e si finisce, una volta per tutte, di pensare che il mondo ci debba sempre qualcosa. Avete un lavoro, uno stipendio, una casa e dei rapporti sociali soddisfacenti: cos’altro vi sentite autorizzati ad esigere dalla società? Quale altro dono volete in cambio dalla vita per smetterla di autocommiserarvi, confermando i peggiori stereotipi sugli Italiani all’estero? Tanto più che le vostre storie sono, quasi sempre, storie di privilegiati.
Si chiama diventare adulti: continuare a lamentarsi vuol dire invece confermare in pieno quella definizione di bamboccioni che tanto da fastidio. Non si smette di essere tali quando ci si trasferisce all’estero e si fanno, per pochi mesi, le pulizie in un hotel: si smette di essere bamboccioni quando si diventa cittadini del mondo
Su La Stampa troviamo infatti la storia di Benedetta Arese Lucini (già il doppio cognome è sospetto), che da Povera Expat, ci spiega quanto sia stata coraggiosa ad andarsene e quanti sacrifici abbia affrontato. Peccato che poi si legga anche che lei “ha viaggiato fin da bambina”, che ha fatto la Bocconi, che ha vissuto in America e poi nel Sud Est Asiatico, e che grazie “a una start up della Silicon Valley” abbia scelto di tornare in Italia.
Benetta Arese Lucini, insomma, ha fatto una vita da sogno, una vita che milioni di ragazzi non possono far altro che sognare, mentre votano Lega o Cinque Stelle illudendosi che ruspe o simil-reddito di cittadinanza possano riscattare la loro esistenza di retroguardia. Ma invece di raccontarci la sua storia per farci morire di invidia, tipo le belle ragazze che su Instragram mostrano i vestiti firmati a bordo degli yacht, vuole la nostra empatia, la nostra vicinanza, addirittura la nostra gratitudine per la sua scelta di tornare.
Non si rende conto, al pari di tutti gli altri, che molte persone l’espatrio non possono permetterselo per le ragioni più disparate: non solo perché “non hanno le palle”, come piace dire a loro, ma perché hanno fatto scelte diverse, come ad esempio avere un figlio, o perché magari sono poveri sul serio e le pulizie nelle stamberghe le fanno già entro i patri confini, senza rompere l’anima a nessuno.
Per questo, cari Poveri Expat, ascoltate il consiglio di un Expat che si sente tutto tranne che Povero: piantatela con quell’italianissimo chiagni e fotti in virtù del quale vi lamentate solo per raccontare a tutti quanto siete stati bravi. Potete abbindolare i giornalisti del web del dolore ma non certo le donne e gli uomini della vostra generazione che sono rimasti in Italia.
Loro, casomai, sono le vittime. Loro che sono costretti, per mille ragioni, ad avere a che fare, tutti i giorni, con un sistema che noi abbiamo avuto la fortuna di mollare. Piangersi addosso perché stasera non mangerete la pizza vuol dire aggiungere al danno una beffa francamente intollerabile.