Frida Kahlo: una scimmia pittrice stentata, ma adorata dagli hipster

Frida ha fatto di se stessa un San Sebastiano al femminile. Ma guardando non a lei ma alle opere, ne viene fuori una dilettante davvero sopravvalutata (e un po' presuntuosa)

Oh, Frida, povera Frida, scimmia pittrice stentata, volenterosa, poster vivente di se stessa, lì sull’altare della grazia glamour, tuttavia perfetta per tutte le annate “Vogue” o “Vanity Fair” del mondo.
Tagliamo subito la testa al toro dell’equivoco, anzi, tagliamo subito la testa alla presunzione della nostra scimmia pittrice d’essere artista degna d’antologia, d’altari, d’appartenere alla vera borsa, al fixing dell’arte che può dirsi davvero tale… Oh, modesta Frida, che precipiti la sua testa da pitecantropo sdraiato, nido di cacatua e ara, la sua testa che innalzava fiori carnivori e poi, su tutto, quel monociglio sempre più scimmiesco, come una divinità grottesca del Messico più infiammato, crocifisso ai propri colori acuminati, pigmento di morte. Dai, ripetiamolo ancora una volta, fu Frida Kahlo una assai modesta, inesistente pittrice, dalla mediocre mano, una stentata studentessa d’accademia mancata, lì a contemplare e ritrarre se stessa, incapace tuttavia di raggiungere il pozzo profondo artesiano delle cose, forse perfino la botola del dolore che si fa icona, anzi, “veronica”, vera-immagine, reliquia del proprio soma sfregiato dal destino.

Il fatto che Madonna o Lady Gaga, o le ragazze che aspirano a danzare nude tra i parei, come negli spot della compagnia delle Indie, con tutte a brindare lì sotto gli spinnaker, possano apprezzarla, perfino ritenendola una sorta di Picasso, anzi, una Picassa dalla vagina in fronte, amuleto della dolente grazia aggressiva femminile, nulla toglie, anzi, non la assolve dalla sua modestia, tecnica, poetica, pittorica

Il fatto che Madonna o Lady Gaga, o le ragazze che aspirano a danzare nude tra i parei, come negli spot della compagnia delle Indie, con tutte a brindare lì sotto gli spinnaker, possano apprezzarla, perfino ritenendola una sorta di Picasso, anzi, una Picassa dalla vagina in fronte, amuleto della dolente grazia aggressiva femminile, nulla toglie, anzi, non la assolve dalla sua modestia, tecnica, poetica, pittorica. Mi dirai: eppure la sua vita custodisce un proprio vangelo di sangue e mestuo, custodisce una cristologia femminile, una spina dorsale spezzata, metafora di una corsa, un cammino interrotti… Frida e la sua colonna vertebrale offesa, ferita, e così mostrata sulle tele come tempio puntellato dai chiodi di una impossibile resurrezione medica, croce verticale, supplizio, anchilosi perenne, il letto come luogo di tortura, come orizzonte… E qui, d’istinto, chissà perché, vengono in mente le parole di un poeta, Majakovskij, caro anche ai coniugi Rivera, quando costui diceva: “Aiuto, sono crocifisso al foglio con i chiodi delle parole”.

I chiodi, così sia, già, i chiodi di Frida, lei davanti all’abbraccio paterno del suo Diego Rivera, sorta di padre adottivo, amante ingombrante, moloch della pittura muralistica di un Messico pagano sempre in rivolta, Frida una scimmia, e Diego il suo amato orango, così quando l’arte riteneva di dover andare verso i muri del mondo, dovesse innalzarsi sulle palizzate dell’agit-prop, anzi, i muri del popolo, così da mostrare se stessa alle masse, indicando loro il cammino per l’ennesima rivoluzione, così sotto la luce di Marx e Lenin, e forse anche di Trotskij.

E infine di Stalin, se è vero che dopo un’infatuazione trotskista Frida e Diego si inginocchieranno davanti al Martello di Dio sovietico, ma questa è già un’altra meschina storia. Ecco che l’album fotografico e insieme pittorico di famiglia la mostra accanto al Gigante Diego, ma lei, Frida, esattamente Frida, manterrà comunque, ora e sempre, una cifra intimistica, facendo di se stessa, del proprio volto, del proprio mezzobusto un San Sebastiano al femminile, Frida martire trafitta dalle frecce del proprio mestruo mancato, Frida con un busto a stringerle il ventre come un cilicio, anima esterna di gesso e metallo, un busto, un corpetto da trasformare esso stesso in opera, come fosse una tela da decorare, magari ora con la grande falce martello della luminosa e insieme oscura fede comunista ora con i chiodi di un destino che la costringe a vedere il mondo dalla prospettiva orizzontale del letto.

A proposito di fede comunista, Frida e Diego blandiranno Trotskij, comporranno infine insieme a lui e ad André Breton alcuni comandamenti del Surrealismo, dove sogno e rivoluzione brillano nel medesimo domicilio ideologico. Ma forse c’è anche qualcosa di più, scabrosi dettagli delle singole autobiografie: se andiamo infatti a cercare negli album fotografici del fondatore dell’Armata Rossa, profeta ormai sconfitto e disarmato in esilio a Coyoacán, la sua casa-fortilizio, tra i cactus e l’agave di Città del Messico, ci sarà modo di trovare uno scatto domenicale dove Frida e Diego figurano, impettiti, accanto al vecchio Leone e alla moglie Natalia, peccato che, a guardar bene, il volto di lei, proprio il volto di Frida, è stato sfigurato da una punta acuminata di lapis, esatto, qualcuno si è accanito con astio pervicace proprio sul volto della nostra modesta eroina pittrice.

Intendiamoci, Trotskij, lo ha raccontato il suo segretario Jean van Heijenoort, era un invasato di fica, lo era anche nei momenti in cui, braccato dai sicari di Stalin, gli stessi che alla fine riusciranno perfino a conficcargli una piccozza nel cervello, avrebbe dovuto pensare ad altro, alla sua IV Internzionale, metti, anche in quei momenti, tuttavia Lev Davidovic, mai veniva abbandonato dal pensiero della grazia femminile, così anche la vulva di Frida verrà sfiorata dai baffi e dal pizzetto del teorico della rivoluzione permanente… Ma forse mi sono perso un po’ per strada, sarà proprio Natalia, la compagna d’esilio del rivoluzionario, a sgraffiare, a sfigurare con la punta dell’astio e del risentimento il volto della dirimpettaia, dell’ospite Frida, la scimmia adulatrice.
Già, il volto di Frida: il monociglio, gli abiti etnici, quasi a voler rendere omaggio alla grande anima tessile messicana, i fiori conficcati nella crocchia, come aureola strappata alla giungla dello Yucatàn, un volto in sé già perfetto per farsi icona, santino, orecchino, màndala, lanterna magica di una femminilità irripetibile, mutilata, perturbante, la nudità sotto la porpora, l’eros della scimmia incarnata nell’umano.

Non c’è femminista modello standard che non pensi a Frida come santa laica guerriera privilegiata, che non la immagini in armi nella sua trincea ora da Nostra Signora di Guadalupe ora da Grimilde, sì, nei loro occhi c’è Frida che interroga lo specchio delle sue brame…
Cosa supplicava allo specchio del destino la nostra, la loro Frida? Forse, innanzitutto un miracolo che facesse volare via i chiodi del San Sebastiano al femminile, la vulva anch’essa dolente sotto il minuscolo panneggio che ne ricopre i fianchi e il bacino, i chiodi che avrebbero dovuto fissare alla terra messicana la sua colonna vertebrale, e ancora che il letto, il letto-altare- offertorio di Frida potesse trasformarsi in un astro volante, se non proprio tappeto, un vettore che la portasse nell’altrove della diagnosi clinica, del comunismo, del suo Diego, padre-amante- figlio-marito-mostro; si narra che per partecipare a una vernice, come fosse stata Cristo immobile nella sua teca quaresimale, Frida ebbe modo di farsi trasportare lontano da casa con tutto il suo letto di dolore, con lei, Frida, lì compiaciuta, come fosse già composta nella primavera della sua camera mortuaria, pronta per il sepolcro, per un obitorio multicolore, se è vero che nella cultura messicana perfino i teschi hanno vita nel quotidiano che attende la morte, e intanto battono le nacchere dei propri denti, proprio loro, le “calaveras”, come mostra il nume iconico della pittura che accompagna la rivoluzione di un Emiliano Zapata e di un Pancho Villa, Josè Guadalupe Posada. Povera Frida, lì nel suo letto, come ghirlanda vivente, come origami, come scimmia baffuta e insieme Ecce Homo, Ecce Mulier, lì a mostrare il proprio martirio, e quanta magnificenza in quel mondociglio, nel trucco, ne le rose ad adornare i capelli, ma anche, per contrasto, quanta miseria espressiva, quanta pochezza nella sua pittura.

Non c’è femminista modello
standard che non pensi a Frida come santa laica
guerriera privilegiata, che non la immagini in armi
nella sua trincea ora da Nostra Signora di
Guadalupe ora da Grimilde, sì, nei loro occhi c’è
Frida che interroga lo specchio delle sue brame

Lo abbiamo detto una modesta, una stentatissima naïf, una dilettante un po’ presuntuosa, soprattutto quando ritrae il proprio medico curante, trasfigurandone la fototessera in fototessera, senza che mai si compia il miracolo del realismo magico. Mi dirai: ma anche il Doganiere Rousseau era un modesto pittore, o no? Certo, che sbagliate, il Doganiere custodiva dentro di sé gli acidi visionari che permettono di accedere al dominio di una flora ed una fauna fantastiche, le tele di Frida, nel migliore dei casi, innalzano sui muri di un Messico da emporio una mancata tavola sinottica di ortopedia, ulna, radio, acetabolo, astragalo, vertebra, e qui fa ritorno a noi nuovamente Majovskij, lui che immaginava un “flauto di vertebre”, peccato che il flauto di Frida mostri un suono di canzone poco più che folkloristica, di un folklore modesto, che non ha mai conquistato la C delle grandi maiuscole poetiche, peccato per lei, peccato per chi continua, ingenuamente, a ritenerla immensa nella sua luce dolente e insieme propria di un fiore carnivoro da glamour ormai hipster.

Dall’1 febbraio al 3 giugno 2018 il MUDEC-Museo delle Culture di Milano celebra Frida Kahlo (1907 – 1954) con una grande retrospettiva.

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