“La minaccia al commercio mondiale”. Sotto, il faccione minaccioso di Donald Trump trasformato in una bomba a mano. The Economist ha lanciato in copertina l’allarme e individuato il colpevole. E se le cose non stessero proprio così? Il presidente francese Emmanuel Macron ha telefonato al presidente americano per metterlo in guardia da una possibile rappresaglia che porterebbe a una escalation pericolosissima. A fronte di tariffe del 25% sull’acciaio importato e del 10% sull’alluminio, gli europei vogliono colpire il bourbon, le Harley Davidson e i mirtilli rossi; la Casa Bianca ha già detto che in tal caso taglierebbe le importazioni di auto europee (un mercato da 36 miliardi di dollari). E così via.
Ma il fatto è che i francesi non sono esattamente le mammolette del libero scambio e lo stesso si può dire a buona parte dei paesi europei. La Ue, con i sussidi ai suoi agricoltori, ha creato una delle più barocche e coriacee barriere ai commerci internazionali colpendo non solo gli americani, ma gli africani e gran parte dei paesi in via di sviluppo. L’industria e i servizi non sono da meno. Una società non europea non può possedere la maggioranza di una linea area, per esempio. Per non parlare delle tasse sui colossi high tech e sui campioni della economia digitale, brandite come spade della giustizia distributiva. Insomma, ci sono tante belle rogne da grattare e prima di rispondere con minaccia a minaccia sarebbe bene tenere i nervi saldi.
Gli Stati Uniti nel secondo dopoguerra hanno fatto della libertà dei commerci la loro bandiera, memori della catastrofe provocata negli anni ’30 quando pensarono di rispondere alla grande depressione con il protezionismo, però molto spesso hanno predicato bene e razzolato male. Ronald Reagan, il campionissimo della rivoluzione liberista, ha praticato dazi e tariffe protezionistiche provocando non pochi guai; Bush padre volle difendere le Big Three dell’industria automobilistica insidiate dai giapponesi; e per venire a giorni a noi più vicini è stato Barack Obama ad aver già innalzato le tariffe sull’alluminio. Nessuna di queste misure è servita allo scopo. L’auto made in Usa è declinata sotto l’offensiva nipponica prima e tedesca poi. Quanto all’industria pesante, il conto è presto fatto: l’aumento dei prezzi dell’acciaio e dell’alluminio (rispettivamente 25 e 10%) crea circa 33 mila posti di lavoro nella metallurgia, ma ne distrugge 179 mila nelle industrie utilizzatrici. Un bel boomerang, secondo i calcoli della società di consulenza Trade Partnership citata dall’Economist.
Gli Stati Uniti nel secondo dopoguerra hanno fatto della libertà dei commerci la loro bandiera, memori della catastrofe provocata negli anni ’30 quando pensarono di rispondere alla grande depressione con il protezionismo, però molto spesso hanno predicato bene e razzolato male
La mossa di Trump in realtà è molto insidiosa. Mentre i suoi predecessori concepivano le misure protezionistiche come temporanee e in ogni caso negoziabili negli organismi internazionali (il GATT prima e ora il WTO), The Donald non crede né al libero scambio né alle trattative multilaterali, e per di più ha evocato la sicurezza nazionale proprio per sfuggire a questa eventualità. Del resto, anche negli accordi della Organizzazione mondiale per il commercio esiste una clausola che consente di sfuggire alle regole comuni proprio in caso di minaccia alla sicurezza. Insomma c’è da far arricchire legioni di avvocati e consulenti. Il paradosso è che la maggior parte dell’acciaio importato dagli Usa proviene dall’Europa, dal Canada, dal Messico, dalla Corea del Sud, tutti alleati strategici degli Usa. Un altro boomerang. E non è nemmeno vero che, come ha detto Trump, dall’estero viene acciaio cattivo, al contrario l’Europa fornisce proprio gli acciai speciali, quelli utilizzati nelle industrie di punta, comprese quelle della difesa, tanto che il Vecchio Continente è il numero uno non per quantità esportata, ma per valore aggiunto.
Eppure nella follia di Trump c’è del metodo che va soppesato attentamente. Il presidente agisce per ragioni di politica interna: il 6 novembre ci sono le elezioni di medio termine che rinnovano una parte del Senato e della Camera dei rappresentanti, un test decisivo per valutare la prima metà della presidenza Trump e capire se l’amministrazione riuscirà ad avere dalla sua il Congresso. L’appuntamento è delicato e la Casa Bianca, subissata di critiche, in pieno caos organizzativo (proprio contro i dazi si è appena dimesso il consigliere economico Gary Cohn), sotto schiaffo per le relazioni pericolose con la Russia di Putin durante le elezioni, vanta una congiuntura economica eccellente: crescita del 3%, disoccupazione al 4%, aumento dei salari operai, una borsa ancora bella gonfia dopo nove anni di corsa del toro. It’s the economy stupid, Trump può rovesciare a suo favore lo slogan clintoniano.
L’Organizzazione per il commercio non funziona; come l’Onu, non riesce a evitare che scoppino sempre nuovi conflitti. La mossa di Trump può essere l’occasione per cambiare
La rappresaglia minacciata dagli europei andrebbe a colpire interessi forti legati ad alcuni pezzi grossi del Congresso: il Bourbon arriva dal Kentucky lo stato che elegge Mitch McConnell, il leader repubblicano del Senato; le Harley-Davidson sono fabbricate in Wisconsin, la patria di Paul Ryan speaker (cioè presidente) della Camera, che è anche uno dei maggiori produttori di mirtilli. Insomma, il boomerang si ritorce in questo caso contro gli europei, con il risultato di rafforzare Trump. Ultima notazione, e non la meno importante, riguarda la Cina. Il presidente americano ha innalzato la bandiera del protezionismo contro Pechino, ma in realtà questa volta l’Impero di Mezzo riceve un danno minore dai dazi su acciaio e alluminio. E non è un caso. La Cina è determinante per disinnescare la mina nord coreana; Kim (il rocket man) non muove foglia che Xi (il nuovo Mao), non voglia. Sorprendendo tutti, Trump ha deciso di incontrare a maggio l’autocrate nordcoreano. Può darsi che il negoziato non cominci neppure, ma se parte, allora tutti avranno bisogno della Cina, gli Stati Uniti per primi, e poi anche l’Europa.
In conclusione, dazi e tariffe sono nocivi, ha ragione in questo l’Economist. Il commercio mondiale non si ferma, sia chiaro, per qualche balzello in più, ma andare avanti con minacce e scossoni seguiti da negoziati bilaterali, rende inutile la camera di compensazione rappresentata dal Wto. Detto questo, parafrasando l’aforisma shakespeariano, ci sono sempre più cose in cielo e in terra di quanti ne sogni ogni ideologia; e prima di compiere delle scelte bisogna valutarle tutte. L’Organizzazione per il commercio non funziona; come l’Onu, non riesce a evitare che scoppino sempre nuovi conflitti. La mossa di Trump può essere l’occasione per cambiare. Soprattutto, prima di lanciarsi in reazioni scomposte, è bene valutare tutta la catena di conseguenze su ogni scacchiere, economico e politico.