Il bastone. Gli va riconosciuta l’indole del titolista. L’adorazione e la lotta è un titolo bellissimo. Come è un titolo bellissimo Gli esordi. E anche Canti del Caos. E anche Gli incendiati. E anche Gli increati, Il vulcano, L’invasione, Il combattimento. Di questo libro, L’adorazione e la lotta, anche la copertina è magnifica. Un giaguaro, teso, sulla roccia, che arma la coda come un deltaplano, e scruta la nebbia amazzonica – la bocca è sospesa nel sospiro. Da Antonio Moresco, in un Paese dove un acquazzone di napalm ha incendiato il cervello degli editori – scrittori&poeti ci sono ma in libreria c’è solo merda, perché? – bisognerebbe andare in falangi cardinalizie, manco fosse il Padre Pio della letteratura italiana. Molti fanno così. Ma l’esercizio critico non ammette accidia né paludata pietà. Di Antonio Moresco bisogna parlare per lo sforzo – inaudito – di promuovere la propria scrittura, per alcuni ‘apocalittica’ e ‘visionaria’ – giudizi gettati lì come pop corn – per me soltanto pasticciata. Beatificato da ottimi editori, nonostante le lagnose lamentele e la ventennale sindrome da Calimero Pulcino Nero – tutti abbiamo subito molteplici rifiuti, pochissimi, negli ultimi 23 anni, hanno avuto il culo di pubblicare per Bollati Boringhieri, Feltrinelli, Rizzoli, Bompiani, Giunti, Mondadori, un trattamento da re, eppure, probabilmente, le ‘lamentiadi’ rendono eroi – Moresco si risolve facilmente. Canti del caos è una pastiera indigesta; Gli esordi sono la sala d’attesa di un capolavoro che non c’è; La lucina e Lettere a Nessuno resteranno. Quanto al resto, resta una valanga di frattaglie, spesso verbose. In particolare, L’adorazione e la lotta, un centone di articoli quasi tutti già pubblicati (ma “li ho rivisti e riattraversati completamente”) sui libri imprescindibili per lo scrittore, è, di fatto, il manifesto dell’egotismo di Moresco. Moresco, infatti, non sviscera l’opera dello scrittore che ama, non lo disseziona dall’iride all’ano, non mette tenda nel suo costato. Moresco si arrampica sulle spalle del gigante, saltella, e dice ai lettori, ‘ehi, ci sono anch’io! e sono il più bravo di tutti!’. Esempio. Primo capitolo (eviterei, per pudore, di parlare dei Tre emblemi anteposti al libro vero e proprio, vergognosamente banali: La corsa del ghepardo descritta da Moresco non vale uno qualsiasi dei documentari di Richard Attenborough). Si parla di scrittori “autobiografici”. Moresco cita Agostino e Rousseau, Melville, Dostoevskij e Balzac. Poi ci si mette anche lui. “Io sono uno scrittore stupido che non ha mai esitato a esporsi nei suoi libri con la sua propria persona”. Siamo a pagina 30. Cinque pagine dopo, c’è ancora lui. “Un mio romanzo, intitolato Gli esordi…”. A pagina 53 si parla di Samuel Beckett. Magari. Piuttosto, si parla di Moresco che scopre Beckett (incipit: “La prima volta che ho avuto tra le mani un libro di Samuel Beckett…”), ritornano Gli esordi, e la consueta, tracotante, sindrome di Calimero Pulcino Nero (“Sono usciti da pochi mesi Gli esordi e ne è venuta fuori una rissa giornalistica”). Anche quando parla dello straordinario libro di Romano Bilenchi, Conservatorio di Santa Teresa, Moresco parla di sé (“Allora leggevo solo scritti ideologici, politici, volantini, bollettini, giornali…”), ma anche quando vorrebbe entrare dentro le Enneadi di Plotino non fa altro che stare sulla zattera dei propri romanzi, con fragore grottesco (“…per esprimere ulteriormente ciò che è infine apparso senza veli nella terza parte di Canti del caos…”). Quando cita Guerra e pace, Moresco tiene ad avvisarci che “mi era piaciuto molto”; in una lunga dissertazione su Il diavolo, dopo Dante e Milton, dopo Goethe e Dostoevskij, dopo Melville, Thomas Mann, Bulgakov e Guimarães Rosa, torna ancora lui, eroe dell’ego, con il suo bicchierino d’acqua calda al cospetto di oceani e di incendi, “anch’io ho scritto due romanzi (Gli esordi e Canti del caos)… che mi hanno preso finora quasi trent’anni di vita, in cui è presente il diavolo”, olè. Gli esempi continuano, lungo la dorsale di 400 pagine (pure quando scrive al “Caro Alessandro Baricco” Moresco torna al solito miagolio, “in questi giorni sono sprofondato – e lo sarò ancora per anni – nel libro nuovo che ho cominciato a scrivere”, come se fosse lui, Moresco, il primo ad aver mai scritto un rigo e a postulare che la scrittura è l’inabissamento di una vita, altro che “anni”). Ora. Io non penso che in Moresco ci sia l’ingenuità dei poeti della domenica che dicono di essere a un passo dal Premio Nobel, che ‘dopo Dante e Leopardi ci sono io’. L’ingenuità è di per sé una poetica. No. Moresco è uno scrittore colto e avvertito, pubblica per Mondadori mica per Madama Dorè Editore. Io ci vedo malizia, tracotanza, egolatria. Moresco, alla fine, non ha un cenno di generosità verso gli scrittori che dice di adorare. Non li scanna. Non li ama. Non ne disincastra il cranio per cucinarne le cervella. Non ne succhia gli occhi inamidati di sogni. Non entra nel sottosuolo della letteratura. Sta sul sofà, come uno dei tanti illustri accademici con le ginocchia di cristallo. Pensa di avere i fulmini di Zeus tra le mani, ma non ha che peti. Così, la sua ramanzina – segando col machete del buon senso gli aggettivi regali – non è diversa da libri analoghi e petulanti, ad esempio Vite che sono la tua di Paolo Di Paolo. Detto questo. Moresco ha il talento di una scrittura che trascina, è un viscerale. Dice sempre le stesse cose, vaghe e superficiali, che si adattano a chiunque (quello che scrive per Paolo Volponi, L’artista pensatore, del “suo massimalismo, la compresenza di poesia e pensiero, il tutto pieno”, può valere, chessò, per Marcel Jouhandeau o per Alejo Carpentier o per Wyndham Lewis, in Moresco aggettivi e giudizi sono interscambili perché aleatori). Però. Però convince. Fossi in Mondadori, gli farei scrivere le ‘quarte’ dei libri degli altri. Assertive e apocalittiche (e tutte uguali). Scopriremmo un grande recensore. Senza perdere un grande scrittore.
Antonio Moresco, L’adorazione e la lotta, Mondadori 2018, pp.412, euro 22,00.
La carota. Tra i tanti destinatari delle Lettere a Nessuno, c’è anche Giovanni Raboni, agli occhi di Moresco, rappresentante della cultura italiana, aulica, di gesso. Beh, nel 1985 Giovanni Raboni, poeta, scrive una lettera a quei nessuno della Mondadori. Raboni rompe. Si è rotto le scatole della “scarsissima presenza, negli attuali programmi della Mondadori, di un lavoro di ricerca e valorizzazione di nuovi autori, sia nel campo della poesia che in quello della narrativa”, che “mi rendono praticamente impossibile fare l’unica cosa che so davvero fare: proporre, e aiutare a scegliere, libri non ovvii, libri nuovi, libri letterariamente credibili”. Come a dire. Il problema dell’editoria che pubblica solo quello che ‘tira’ – libri da tirare fuori dalla finestra – è vecchio di decenni. Per questo, più che continuare a suonare la lagna della triste lavanderina, bisogna rilanciare. Alzare la mira. Sparare in fronte al giaguaro. Al manifesto della vanità di Moresco – usa i grandissimi scrittori per promuovere i propri scritti – allora, meglio sostituire Harold Bloom. Ci basta un libro, banalmente sbalorditivo, come Il Genio per farci passare una giornata scintillante. Bloom, come si sa, usa la Cabala per diramare i nomi dei più grandi autori di ogni tempo. In totale: 100 autori, da Murasaki Shikibu (che piace tanto anche a Moresco) a Eugenio Montale, da Paul Celan a Lev Tolstoj e via accumulando. Parziale, contraddittorio, piacione: il libro, gonfio d’intelligenza, si legge che è un piacere (e non è male). Soprattutto, quei libri citati da Bloom ti vien voglia di leggerli, non sono cannibalizzati dalla tracotanza (a riprova del fatto che Moresco mi è simpatico, ricordo che qualche anno fa l’ho invitato a Riccione per presentare Gli increati: era giusto che in luogo screanzato e incolto come Riccione risuonasse la voce definitiva di Moresco. Dopodiché, leggo altro). Altrimenti, leggetevi i saggi di Angelo Maria Ripellino, scritti divinamente, di audace potenza. I suoi cammei dedicati ai poeti russi nella Poesia russa del Novecento, sono meravigliosi, fondono la determinazione del critico alla poetica. Di Boris Pasternak, ad esempio, Ripellino ci mette sul piatto il cuore: “Sommesso, estraneo agli scandali con cui i futuristi allarmavano il ‘buon senso’ e la pace dei borghesi, Pasternak si ritrasse sin dagli inizi in una sua gelosa solitudine, con pochissimi appigli alla realtà. E negli anni tumultuosi della rivoluzione si tenne ancora in disparte, diffidando dei temi politici e di quella poesia tribunizia, in cui s’era invece tuffato Majakovskij con tutta l’anima… Egli passava nel folto delle battaglie, che avrebbero mutato la Russia, come un sonnambulo, destandosi a tratti per annotare con voce assonnata, non le gesta del popolo, ma i prodigi del cosmo”. L’opera resiste se lo scrittore si nasconde dietro di essa, si disfa in essa. Moresco preferisce fare Calimero Pulcino Nero o Quattrocchi, quello dei Puffi, sa tutto lui. Così, clamorosamente, la sua opera si perde nei regni dell’illeggibile.
Harold Bloom, Il Genio, Bur
Angelo Maria Ripellino, Poesia russa del Novecento, Feltrinelli