Kim Jong Un ha vinto la sua partita e si appresta a passare all’incasso. La recente svolta del dittatore nord coreano, che ha prospettato l’interruzione dei test nucleari e missilistici e la chiusura del sito nucleare nel nord del Paese, non è nata dal nulla. Prima di mostrare il volto dialogante, tanto con il “nemico” sud coreano quanto col suo potente protettore “imperialista e capitalista” statunitense, Kim Jong Un è stato considerato per anni un brutale dittatore sanguinario, tacciato di eliminare i suoi nemici (tra cui anche diversi parenti) in maniera crudele e fantasiosa. E per capire cosa stia succedendo in queste ultime settimane conviene partire proprio dall’inizio della presidenza di Kim.
Il giovane dittatore in breve tempo ha eliminato i suoi possibili rivali interni e gli uomini di contatto tra il suo regime e la Cina, il potente alleato che ha finora garantito la sopravvivenza del regime nord coreano. Non era infatti un mistero che Pechino non vedesse di buon occhio Kim e sperasse di rimpiazzarlo con qualche altro membro della dinastia più manovrabile. Ma la Cina ha dovuto masticare amaro: a Pyongyang l’unica scelta possibile, dopo le purghe di inizio mandato, era Kim. Troppo rischioso rovesciarlo senza avere una exit strategy e in un momento in cui gli Stati Uniti sembravano pronti a spostare il proprio baricentro strategico dall’Atlantico al Pacifico. E questa è stata la prima mano abilmente – e spietatamente – vinta dal dittatore nord coreano.
Kim è stato in grado di portare a compimento il progetto del padre, Kim Jong Il, che aveva raddoppiato gli sforzi per dare al proprio Paese un’arma nucleare dopo essere stato inserito da George W. Bush nel famigerato “asse del male” – insieme a Iran e Iraq – per evitare di fare la fine di Saddam Hussein. E di nuovo il giovane dittatore nord coreano è stato capace di mettere nel sacco la superpotenza mondiale. Ha infatti dimostrato (più o meno, ma quanto basta) di essere in grado di costruire ordigni nucleari e di avere vettori balistici adeguati a lanciare un attacco contro installazioni americane. A quel punto le già scarse possibilità che Washington tentasse un colpo di mano contro il regime nord coreano sono crollate praticamente a zero. Anzi, forse proprio in quel momento i canali diplomatici – per spinta di ambo le parti – hanno cominciato a funzionare veramente. Arriviamo così agli ultimi sviluppi.
Kim è stato in grado di portare a compimento il progetto del padre, Kim Il Sung, che aveva raddoppiato gli sforzi per dare al proprio Paese un’arma nucleare. Le già scarse possibilità che Washington tentasse un colpo di mano contro il regime nord coreano sono crollate praticamente a zero
Kim sembra volersi inserire in quella tradizione di dittatori sanguinari e brutali che tuttavia sono in grado di imprimere svolte riformiste “storiche” al proprio Paese. Può permettersi di trattare con l’Occidente capitalista perché nessuno dei falchi del suo regime gli potrebbe mai rimproverare di aver avuto finora un atteggiamento cedevole o debole nei confronti degli Usa e della Sud Corea. E ha ottenuto la chance di trattare proprio mettendo gli Usa con le spalle al muro, ponendoli di fronte a una scelta oggettivamente difficilissima, se attaccare Pyongyang senza nessuna garanzia sul “dopo” o se ingoiare lo status quo. Washington ha scelto la seconda strada. L’ex direttore della Cia e da pochi giorni nuovo segretario di Stato americano Mike Pompeo poche settimane fa è andato in incognito a parlare coi nord coreani per organizzare i prossimi passi del disgelo diplomatico, e il presidente Trump si è dichiarato addirittura impaziente di incontrare Kim Jong Un.
Il giovane dittatore può adesso ambire ad entrare nella Storia: potrebbe infatti essere lui il leader della Nord Corea a siglare una storica pace con la Sud Corea – ad oggi tra i due Paesi vige ancora l’armistizio siglato alla fine della guerra del 1950-1953 -, lui a portare al regime comunista il riconoscimento degli Usa e del consesso delle nazioni, sempre lui ad accreditare Pyongyang presso Pechino come un alleato sì, ma forte e non subalterno. In tutto ciò potrebbe anche chiedere – e ottenere – aiuti per la sua popolazione, perennemente affamata e flagellata da malattie e carestie, il che non farebbe altro che consolidare ancor di più la sua leadership e proiettarla nei decenni a venire. Ma a quel punto Kim Yong Un non sarebbe più il pazzo, il “madman” della politica internazionale, ma l’artefice di una storica – e fino a pochi mesi fa insperata – normalizzazione dei rapporti internazionali in quell’angolo di Pacifico.