Da Lenin a Saddam, i dittatori amano scrivere. E spesso ci riescono bene

Dai tempi dell'impero romano i dittatori hanno il callo dello scrittore, ma il "genere" è esploso nel XX secolo. Il giornalista britannico Daniel Kalder descrive questa passione in un tomo terribile e spassoso. Il più bravo di tutti? Per lui è Mussolini

Esempio emblematico. Nel 1933 Elio Vittorini, che insieme a Cesare Pavese è stato il fautore delle sorti editoriali di Italia nostra, ha 25 anni e tanta smania di far fama. Da giornalista culturale pratica su Il Bargello, settimanale di politica e cultura curato dalla Federazione provinciale fascista fiorentina, direttore Alessandro Pavolini. Quel giorno Vittorini ha un compito importante. Deve scrivere la recensione a Vita d’Arnaldo, pamphlet romanzesco pubblicato da Il Popolo d’Italia, in cui Benito Mussolini rievoca la vita del fratello Arnaldo, morto nel dicembre del 1931, gran promoter della ‘mistica fascista’. Vittorini va ben oltre i limiti imposti dalla devota recensione. “Ecco un poeta”, esulta. Poi, cita alcuni passaggi del testo. “Queste dieci pagine – è straordinario ma è così – mi ricordano le duecento del più bel romanzo, forse, di Tolstoj, del romanzo che s’intitola Infanzia”. Insomma. Benito Mussolini è scrittore più bravo – e più sintetico – dell’olimpico Tolstoj. Ora: o Vittorini ha rosolato il cervello in olio di ricino – e un po’ è così – oppure, indubbiamente, il Dux un certo talento narrativo l’aveva davvero. L’episodio microscopico torna alla mente sfogliando il tomo – terribile e spassoso – di Daniel Kalder, giornalista per la BBC, il Guardian e The Times, Dictator Literature. A history of despots through their writing (Oneworld, pp.400, £16.99). Nel testo introduttivo (Tradition and the Individual Tyrant, che simula il superclassico testo di Sua Enormità T. S. Eliot, Tradition and the Individual Talent) Kalder spiega il concetto: “Dall’epoca dell’Impero Romano, i dittatori scrivono libri, ma nel XX secolo questa attitudine è una specie di Krakatoa, l’eruzione di una verbosità dispotica che continua fino ai nostri giorni. Alcuni dittatori scrivono testi teoretici, altri producono manifesti spirituali, qualcuno scrive poesie, memorie o romanzi d’occasione”. Soprattutto, di fronte al libro di un dittatore non c’è critica letteraria che tenga – vedi Vittorini – il libro dev’essere accolto come il verbo di un dio e imposto come nutrimento alle masse tutte (come si sa il Libretto rosso di Mao Tse-tung, centone confuciano di scarsa ispirazione, è tra i libri più venduti dell’umanità, insieme alla Bibbia e al Corano, è il testo sacro della Cina moderna).

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