Il 1 maggio del 1998, vent’anni esatti fa, Jeffrey Lebowksi detto The Dude – o il Drugo, se preferite la versione italiana – fa il suo ingresso nell’immaginario occidentale e, a rivederlo ora, la sua è l’esatto opposto di un’entrata epica.
Entra lentamente, dopo che la voce fuori campo ci introduce la storia. Fa il suo ingresso in campo lungo, strascicando i passi, planando con le sue pantofole orribili nel reparto latticini di un supermercato di Los Angeles. Sta cercando del latte intero per i suoi celebri White Russian. Addosso ha giusto un paio di bermuda e una maglietta bianca sormontata, con stilosa ineleganza, da un accappatoio marroncino.
Quando arriva davanti al banco del latte prende un cartoccio e lo apre. Poi, con ancora l’ombra del latte sui baffi, fa per pagare. Davanti a lui, mentre la commessa lo guarda con un misto di attrazione e disprezzo, in televisione George Bush senior sta preparando l’annuncio della prima invasione dell’Iraq, ma di questo, come di tutto il resto, al Drugo non frega nulla. Come scopriremo dal minuto successivo, infatti, sebbene la fantasia dei fratelli Coen lo abbia scagliato in uno dei più incasinati intrighi del cinema contemporaneo, al Drugo interessano poche cose nella vita: il White Russian, i suoi pochi amici, il bowling, la marijuana, la sua macchina, e il suo tappeto naturalmente.
Nonostante oggi il Drugo sia uno dei personaggi più amati del cinema, nonostante da quel film siano nati raduni, meme, merchandising di ogni tipo e addirittura una religione, il Dudaismo, quando il film uscì nei cinema di mezzo mondo, tra l’aprile e il maggio del 1998, quel simpatico cazzone disattivista non scaldò i cuori del pubblico, né della critica. «Quando sono uscito dal nuovo film dei fratelli Coen avevo in faccia un sorriso stampato, ma anche la sicurezza di non avere mai riso così tanto di fronte a un film tanto scadente», scrisse per esempio il Guardian, concludendo che il film è solo «un miscuglio di idee buttate in un sacco e fatte saltar fuori a caso, un film disastroso, che non vincerà alcun premio, ma che almeno qualche battuta buona ce l’ha».
È vero, di premi non ne ha vinti, alla fine si è solo accontentato di entrare a piedi uniti nell’immaginario cinematografico di un paio di generazioni. E non solo diffondendo il sacrosanto e giusto odio per gli Eagles, né facendo bere per anni a milioni di adolescenti di tutto il mondo un cocktail mediocre, ma anche, anzi soprattutto, tatuando nel nostro immaginario una testimonianza preziosa, l’incarnazione perfetta di uno stato d’animo che oggi ci sarebbe prezioso: il disattivismo più totale, sintetizzato in una delle sue battute più celebri, di quelle con cui ci fanno le magliette, ovvero The Dude Abides.
Nonostante oggi il Drugo sia uno dei personaggi più amati del cinema, nonostante da quel film siano nati raduni, meme, merchandising di ogni tipo e addirittura una religione, il Dudaismo, quando il film uscì nei cinema di mezzo mondo, tra l’aprile e il maggio del 1998, quel simpatico cazzone disattivista non scaldò i cuori del pubblico, né della critica
Il Drugo pronuncia quella frase nella scena finale del film, quando incontra per la seconda volta il cowboy senza nome appoggiato alla barra del bar del bowling. Stanno giocando le semifinali, e Drugo scambia un paio di battute con il cowboy baffone. «Take it easy, Dude. I know that you will», gli dice, ricevendo l’epica risposta che si vede ancora oggi su qualche maglietta «Yeah man. Well, you know, the Dude abides».
«The Dude abides», ripete poi il vecchio cowboy, mentre Jeff Bridges è già sfumato fuori dal film e va a finire la semifinale del torneo di bowling. E continua, riassumendo l’intero messaggio del vangelo secondo Drugo in un breve monologo finale che recita con lo sguardo in camera, facendo a pezzi la quarta parete e parlando direttamente alla Storia, più che ai soli spettatori dell’epoca: «Non so voi, ma tutto questo mi conforta. È bello sapere che lui è là fuori, il Drugo, prendendola bene per tutti noi peccatori. […] E poi, siam venuti a sapere che c’è un piccolo Lebowksi in arrivo. Voglio credere che sia il modo in cui questa dannata commedia umana continua a perpetuarsi, attraverso le generazioni, coi vagoni verso ovest, attraverso le sabbie e i tempo fino a che…».
Il cowboy non finisce la frase, perché non c’è niente da aggiungere e lo sa. Lo sa che sta farneticando, e lo dice — aw, look at me, I’m ramblin’ again — evitando di dire, ma mostrando perfettamente il vero senso dell’antieroismo del Drugo, un Don Chisciotte dei tempi moderni che però, a differenza di Alonso Quijana, non ha nessuna intenzione di combattere per qualcosa, tanto meno contro i mulini a vento. A patto che nessuno gli pisci sul tappeto.
The Dude abides. Il Drugo se ne catafotte, il Drugo tollera e se la prende bene. Insomma, praticamente tutto il contrario di noi che, a vent’anni di distanza dalla lezione del Drugo, viviamo costantemente incazzati gli uni con gli altri, che ci accapigliamo sul giudizio di una serie, di un film, che ringhiamo contro chi non la pensa come noi, che pretendiamo che tutti stiano a sentire i nostri belati solipsisti a social unificati, che ci guardiamo e riguardiamo i nostri selfie allo specchio, in un orribile ummagumma infinito di barbe hipster e risvoltini. Noi, che ci facciamo trascinare da ogni polemica, ogni indignazione, ogni scandalo. Noi che ci prendiamo sempre e continuamente troppo sul serio. E che intanto, mentre il nostro attivismo si spiaggia su change.org, non siamo nemmeno in grado di accorgerci che in tutti questi anni, mentre noi eravamo presi nell’intafanarci su ogni cosa, ci hanno strapisciato sul tappeto.