Solo durante i primi tre mesi dell’anno si sono registrati circa dieci suicidi. Intanto nelle carceri italiane il numero dei detenuti continua a crescere. Oggi restano dietro le sbarre in 58.223. Quasi diecimila in più rispetto ai 50mila posti disponibili. E così il sistema torna a vivere condizioni drammatiche. Se il 35 per cento dei reclusi è ancora in attesa di giudizio, il sovraffollamento ha nuovamente raggiunto «limiti tali da riproporre complessivi profili di sicurezza oltre che di decenza». L’ultima denuncia è dell’Unione camere penali, che ieri ha confermato lo sciopero in programma all’inizio di maggio per protestare contro la mancata approvazione della riforma dell’ordinamento penitenziario. Mentre la politica si incarta sulla nascita del nuovo esecutivo, in Parlamento succede anche questo. La legislatura appena conclusa ha lasciato irrisolto il grande tema delle carceri. E l’intervento di riforma – frutto di un lungo lavoro con la partecipazione di numerose realtà del settore – è ancora in attesa del definitivo via libera. La scelta politica del governo di non approvare il testo prima delle elezioni ha finito per complicare tutta la vicenda. E così la scorsa settimana è arrivato l’ennesimo stop. Con il voto di Cinque Stelle e del centrodestra, la capigruppo di Montecitorio ha deciso di non assegnare il documento alla commissione speciale per il definitivo parere. Un intervento formale, non vincolante, che pure adesso rischia di bloccare il percorso della riforma.
«Il mancato inserimento dei decreti legislativi attuativi della riforma penitenziaria nei lavori delle commissioni speciali – denuncia adesso l’Unione delle camere penali – si pone nettamente in contrasto con la proclamata centralità del Parlamento, dimostrando come in verità leggi frutto di una faticosa e approfondita meditazione e di ampia condivisione politica, giuridica e culturale possano essere agevolmente accantonate e dimenticate». Parte della responsabilità è sicuramente del governo Gentiloni. La decisione di posticipare la riforma agli ultimi mesi della legislatura – e la scelta di non approvare il decreto prima del voto – ha creato le condizioni per lo stallo attuale. «Trovo disgustoso che non ci sia stato il coraggio di far approvare questa riforma prima delle consultazioni elettorali» denuncia adesso il presidente dell’Ucpi Beniamino Migliucci. Una situazione resa ancora più difficile dagli attuali veti politici. Un’evidente impronta giustizialista, denunciano in molti, ha spinto Lega, M5s e Fratelli d’Italia a complicare ulteriormente il cammino della riforma. La scorsa settimana si è scelto di non assegnare il testo alle commissioni speciali. Rimandando tutto l’iter in capo alle commissioni permanenti, che al momento non sono state neppure costituite. È una decisione che potrebbe creare più di un problema al nostro Paese. Non dimentichiamo che solo pochi anni fa l’Italia è stata sanzionata per le condizioni detentive degradanti e inumane all’interno delle nostre carceri. «Una scelta sbagliata e rischiosa» come confermato dal ministro della Giustizia Andrea Orlando, che pochi giorni fa ha contattato i presidenti di Camera e Senato chiedendo di riconsiderare la decisione. «Anche perché la mancata attuazione delle riforma rischierebbe di pregiudicare gli importanti passi compiuti, che hanno determinato la chiusura del monitoraggio al quale il nostro Paese era stato sottoposto a seguito della condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo nel gennaio 2013».
Solo durante i primi tre mesi dell’anno nelle carceri italiane si sono registrati circa dieci suicidi. Intanto il numero dei detenuti continua a crescere. Oggi restano dietro le sbarre in 58.223. Quasi diecimila in più rispetto ai 50mila posti disponibili. Nel 35 per cento dei casi si tratta di persone ancora in attesa di giudizio. E così il sistema torna a vivere condizioni drammatiche
Parla apertamente di manovre ostruzionistiche il garante dei detenuti Mauro Palma. «È duro spiegare a 58.300 detenuti che non si fa un provvedimento che porterebbe a migliorare il sistema perché si fanno giochetti cercando di arrivare al fischio finale dell’arbitro, ossia allo scadere dei tempi previsti dalla delega». Il rischio, denunciato anche dal garante, è che il lavoro svolto finora per migliorare il sistema carcerario finisca su un binario morto. Ecco perché gli avvocati penalisti, insieme al Consiglio nazionale forense e all’Associazione Antigone, adesso chiedono al governo Gentiloni di andare avanti in ogni caso. Il parere delle commissioni parlamentari è solo un atto formale, spiegano. «Passati dieci giorni, il Consiglio dei ministri è comunque autorizzato a emanare il decreto», racconta Palma nella sede dell’Unione Camere Penali. «Adesso il governo Gentiloni ha la possibilità di riscattarsi da quello che a molti è apparso come un atto di viltà» insiste la leader radicale Rita Bernardini, da sempre in prima linea nelle battaglie per i diritti dei detenuti. La speranza non è ancora finita. E da qui all’inizio di maggio, quando è stato fissato lo sciopero, la situazione potrebbe sbloccarsi. «Speriamo che qualcosa accada – insiste Migliucci – speriamo di poter revocare questa nuova astensione dalle udienze».
Intanto in Italia la popolazione carceraria torna a crescere in maniera preoccupante. La riforma potrebbe intervenire proprio su questo aspetto. L’estensione delle misure alternative avrebbe il duplice effetto di diminuire il sovraffollamento e allinearsi al dettato costituzionale e alla finalità rieducativa della pena. Eppure la portata dell’intervento legislativo è stata spesso male interpretata. In molti hanno erroneamente presentato la riforma al pari di un “salva ladri”. Lo hanno spiegato bene alcuni giuristi, avvocati e magistrati, in una lettera aperta che poche settimane fa auspicava un rapido intervento del governo. «La riforma – così le parole degli esperti – non contiene nessun afflato buonista, nessuna “liberatoria” per pericolosi delinquenti, nessun insensato e indulgenziale “svuotacarceri”. Semmai preserva la comunità da gravi forme di recidiva criminale attraverso la proposta di un impegnativo cammino di rientro rivolta a chi voglia e sappia intraprenderlo». Nessun colpo di spugna, insomma. «Anche perché la personalizzazione delle misure alternative prevista dalla riforma – come racconta oggi il presidente del Consiglio nazionale forense Andrea Mascherin – rende più complicata la loro concessione, i detenuti dovranno meritarsela». Semmai, l’intervento legislativo punta a garantire maggiore sicurezza per i cittadini. E la spiegazione è nelle statistiche presentate dall’Unione camere penali. Oggi chi sconta la pena interamente in carcere torna a delinquere nel 70 per cento dei casi. La recidiva diminuisce invece al 30 per cento per chi accede alle pene alternative. Ma scende fino al 3 per cento per i detenuti che imparano un mestiere e possono lavorare durante l’esecuzione penale. «Chi sconta la pena solo in carcere torna a commettere tanti reati – spiegava qualche giorno fa Migliucci – Ma chi è ammesso a pene alternative e chi impara un lavoro non ne commette più».