Una porta chiusa dal sigillo della polizia. Basta questa immagine a svegliare la nostra immaginazione e a dare vita alla curiosità di conoscere i dettagli della storia accaduta nelle stanze. Oppure pensate a quante volte guardando un film, nel momento in cui il delitto sta per essere compiuto, siamo lì a coprirci gli occhi con una mano. Premurandoci però di lasciare il giusto spazio tra le dita per non perdere la pugnalata letale.
Questa ambiguità che fa parte di noi è la fonte inesauribile per l’industria che fa del crimine uno spettacolo. I tour alle Vele di Scampia sulla scia dei protagonisti di Gomorra o il pozzo del delitto Scazzi ad Avetrana. Il fascino ambiguo del delitto ha la sua topografia e i suoi tour operator. E, da sempre, la sua pubblicistica: sono nate riviste che raccontano ogni minuzioso dettaglio su corpi e vite straziate. Non sembra essere un caso che mentre l’editoria è in crisi nascano magazine come Giallo. Anche nel mondo dei romanzi il crimine e il malaffare sono da tempo usciti dalla nicchia e dal “genere”, e sono approdati al mainstream.
Anche in tv ci sono ore e ore di Quarto Grado, Porta a Porta, Delitti. Il nuovissimo Storie maledette è un cult. Questo fenomeno porta con sé delle domande. Perché sentiamo questa profonda attrazione verso il crimine? «Non bisogna cadere nell’atteggiamento snobistico che liquida la passione per il crimine come semplice esito della perversione della società contemporanea» spiega Oriana Binik, sociologa e ricercatrice in criminologia all’Università Milano-Bicocca. Binik ha dedicato un libro a questo tema: Quando il crimine è sublime, Mimesis Edizioni.
Vengono in mente molti aggettivi ma forse quello più utilizzato in genere è morboso. Lei invece ha scelto di definire il crimine con l’aggettivo sublime. Perché?
Nel corso del tempo abbiamo assistito ad un mutamento del significato del termine “sublime” che nel linguaggio comune oggi viene utilizzato per dire “più che bello”. In realtà vi è una componente fortemente ambigua nella radice etimologica della parola “sublime” (da sublimis, composto di sub-, “sotto”, e limus, “obliquo”; quindi propriamente: “che sale obliquamente”, ovvero di sub-, “sotto”, e limen-, “soglia”, propriamente “che giunge fin sotto la soglia più alta”) e solo recuperandola è possibile cogliere le potenzialità di questo concetto.
Quindi i delitti come possono essere sublimi?
Il sublime è un’esperienza emotiva molto forte che pone di fronte al senso del limite, che ci pone in stato di spaesamento. Com’è possibile uccidere? Fino a che punto si può spingere l’essere umano? Questo suscita uno stato di smarrimento in cui il senso di attrazione e di repulsione si mescolano. Si tratta dunque di una condizione complessa.
“Sublime”, lei usa il linguaggio dell’arte per parlare di delitti…
Già nel 1827 de Quincey scriveva un trattato ironico, “L’assassinio come una delle belle arti”, in cui affermava che il crimine poteva essere considerato dal punto di vista morale, oppure considerato “esteticamente”, come esperienza sensoriale. Questi due aspetti sono molto presenti ancora oggi, forse con uno sbilanciamento sull’estetica, considerando la forte tensione verso tutto ciò che è visivo che connota la società contemporanea.
Cos’è che ci affascina del male?
Il male e i delitti consentono il confronto con temi esistenziali di cruciale importanza: la morte, il contatto con la mostruosità, con l’autentico, con i significati da attribuire al legame sociale.
C’è ancora un misto di attrazione e repulsione nel nostro guardare un crimine o ormai un’emozione ha prevalso sull’altra?
In realtà io credo che il potere del crimine risieda nella sua capacità di attivare entrambe le emozioni, è proprio il mix tra le due che è in grado di catturarci. Tutto si gioca sulla distanza, sulla possibilità di osservare il Male da una posizione sicura, subendo la sua seduzione: si tratta di un processo “ritmico” di avvicinamento e allontanamento, presenza e assenza, significato assoluto e totale disorientamento…
Le riviste a tema omicidi e delitti, i canali monotematici su serie con al centro crimini, i programmi tv incentrati sull’investigazione del crimine. Perché abbiamo bisogno di tutto ciò?
Da un lato, possiamo affermare che nella società contemporanea si assiste a una “mercificazione delle emozioni”. Allo stesso tempo, però, in una società in cui il numero di crimini reali è in progressiva diminuzione, è come se la loro rappresentazione mediatica ci consentisse di interrogarci sul tipo di società che desideriamo, su dove collochiamo il confine tra Bene e Male… è una sorta di linfa vitale necessaria a riattualizzare la forza dell’uomo e del patto sociale tra consociati.
Abbiamo bisogno del crimine, quindi?
Tutti noi sappiamo di essere destinati alla morte. Qualcuno diceva che la morte è “il verme al centro della pretesa felicità dell’uomo”. Il crimine e il sublime rispondono al bisogno profondo di confrontarci con questa dimensione dell’esistenza, ma tenendola a una certa distanza. Nella società contemporanea la morte è stata rimossa dalla sfera pubblica, soprattutto religiosa, ed è stata medicalizzata. Viviamo così in una condizione paradossale in cui la morte è “assente-presente”: celata nella sfera rituale e impoverita nel registro simbolico, attraverso il crimine ricompare in maniera dilagante in televisione, su Internet, sui giornali, più in generale in tutta la cultura popolare.
Il crimine come oggetto necessario della pop culture, dunque…
Se intendiamo la cultura come l’insieme dei significati che cerchiamo di attribuire al mondo che ci circonda, il crimine ne è sicuramente parte, se no non esisterebbe neanche la criminologia. L’aspetto che più mi ha interessato è però la cosiddetta “cultura popolare”, che è attraversata dal crimine in modo sempre più massiccio. Credo che lo studio della cultura popolare sia molto utile per capire cosa accade, a livello profondo, nella società contemporanea.