Primo maggio addio: il lavoro non c’è più, e la politica non sa cosa fare

È un controsenso festeggiare il lavoro mentre in Italia il lavoro è così poco (e malpagato) da alimentare fenomeni emigratori stile inizio ‘900. E la politica non ha strategie chiare per affrontare la situazione. Né le hanno i sindacati

Si va verso il Primo Maggio cantando «Una vita in vacanza», l’hit dello Stato Sociale il cui leader Lodo Guenzi condurrà il Concertone di Piazza San Giovanni. Forse non poteva essere altrimenti: il ritornello della canzone – «Perché non te ne vai?» – è la miglior sintesi dello stato d’animo del Paese, e in particolare dei suoi giovani che continuano a partire con biglietti di sola andata. Gli italiani trasferiti all’estero hanno sfondato fine 2017 (dati Aire) la quota simbolica di cinque milioni e il loro incremento è costante: più 3,6 per cento nel 2017 rispetto all’anno precedente, più 49,3 per cento negli ultimi dieci anni.

Affrontare la Festa del Lavoro in una Repubblica fondata sul lavoro mentre tutti i dati ci dicono che il lavoro italiano è così poco e malpagato da alimentare fenomeni di emigrazione conosciuti solo all’inizio del XX Secolo, è oggettivamente complicato. E forse è un bene che da molto tempo la ricorrenza abbia perso gran parte delle sue connotazioni politiche per trasformarsi in evento musicale. Meglio cantare che arrampicarsi sugli specchi, poiché è evidente che ne’ i partiti ne’ il sindacato hanno idea di come invertire la tendenza, ne’ intendono occuparsene.

La sinistra ha sciupato sotto l’altisonante titolo di Jobs Act le risorse che avrebbero potuto riformare il collocamento, attraverso le politiche attive del lavoro, restituendo un minimo di decenza a un mercato in cui troppo spesso flessibilità fa rima con precariato. La destra ha dato retta per anni alla mitologia imprenditoriale del l’Articolo 18 Male Assoluto e all’idea miracolistica che, abolito quello, si sarebbe tornati ad assumere e a pagare.
I rivoluzionari del M5S hanno come riferimento teorie balzane tipo quelle del prof. De Masi sul lavoro gratuito unica soluzione alla crisi, o progetti insostenibili come il reddito di cittadinanza. Ricette tutte fallite o irrealizzabili che rendono il nostro Primo Maggio una “data della vergogna” per l’ultima generazione di politici, anche nel confronto europeo dove vedono concreti miglioramenti persino Paesi più instabili e sconquassati del nostro come Spagna e Grecia.

E allora, «Perché non te ne vai?» diventa la domanda giusta del nostro Primo Maggio, quella che in questo momento decine di migliaia di ragazzi e ragazze stanno facendosi tra di loro all’uscita dell’università o sui muretti di paesi sonnolenti e periferie degradate

Le grandi feste civili costituiscono l’ossatura dell’identità nazionale e la Festa del Lavoro in Italia ha un suo valore specifico che, in qualche modo, ha prevalso persino sulle lacerazioni novecentesche. Nemmeno Benito Mussolini osò abolirla: si limitò a spostarla al 21 Aprile, in coincidenza con l’approvazione della Carta che all’articolo uno definiva il lavoro «il sovrano titolo che legittima la piena e utile cittadinanza dell’uomo nel consesso sociale». La Chiesa la dedicò a San Giuseppe, e si adoperò per starci pure lei a pieno titolo. È davvero un controsenso che proprio qui, dove tutte le filiere politiche, comunisti, fascisti e Vaticano, si sono trovate d’accordo per un secolo sul punto, si parli più di pensionati (a destra, vedi abolizione della Fornero); di ingegneria costituzionale (nel Pd, che ci si è giocato una legislatura) e di sussidi (M5S) che di quella che appare come la prima emergenza nazionale.

E allora, «Perchè non te ne vai?» diventa la domanda giusta del nostro Primo Maggio, quella che in questo momento decine di migliaia di ragazzi e ragazze stanno facendosi tra di loro all’uscita dell’università o sui muretti di paesi sonnolenti e periferie degradate. Forse sono proprio le loro scelte e i loro tentativi che possono dare un senso alla giornata: sì, l’idea del lavoro come dato centrale dell’esistenza resta viva, la Repubblica è davvero fondata sul lavoro, gli italiani restano grandi lavoratori, capaci di attraversare i confini pur di lavorare, e se un problema c’è non è certo lo smarrimento della cultura del lavoro ma l’incapacità di chi governa il Paese di dargli uno sbocco dentro i confini nazionali.

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