Quello di Paul Salopek è il progetto giornalistico più estremo della nostra era

Un reportage sulle migrazioni dell’umanità. Un progetto che non si era mai tentato. E che richiede non pochi sforzi. E non poco tempo

La domanda che mi interessa di più è questa. Che durata ha la fede in un compito? Che limite può importi un progetto giornalistico? Fino a che punto lo puoi accettare? Paul Salopek si è dato una risposta. Dieci anni. Abitare giorno e notte un progetto, un’idea, un’ossessione. Per dieci anni. “Dopo vent’anni passati in giro per il mondo su aeroplani e automobili e ogni sorta di mezzo di trasporto, ho capito che muovendomi così rapidamente attraverso le storie avrei perso le storie più importanti, quelle che voglio raccontare”. Paul Salopek ha 56 anni, indossa un nome che rammemora la tenacia (a me fa venire in mente il micidiale corridore ceco Zatopek), è californiano, è stato a lungo inviato per il Chicago Tribune, scrivendo dall’Africa all’Afghanistan, ha vinto due premi Pulitzer, nel 1998 e nel 2001. Insomma, con questi allori e con questa età Salopek potrebbe godersi la vita ‘da scrivania’, fare qualche lezione di giornalismo in giro per il globo, sonnecchiare tra un fottio di cravatte e di happy hour. Invece. A Paul sei anni fa viene una idea formidabile e giornalisticamente controcorrente. L’idea ha un logo riuscito, Out of Eden, e una formula convincente. Salopek intende compiere il percorso migratorio dell’umanità, dal cuore dell’Africa, passando per l’Asia, il Nordamerica, fino alla Terra del Fuoco, a fare bye bye ai ghiacciai antartici.

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