Sorpresa: in Italia il costo del lavoro scende ma nessuno viene a investire da noi

I dati Eurostat dimostrano il crollo di un alibi storico: negli ultimi anni il cuneo fiscale in Italia è cresciuto meno che in Germania, Francia e Belgio. Ma senza competenze, infrastrutture e una giustizia efficiente si va poco lontano

È sempre stata elencata come una delle cause delle nostra scarsa competitività, della scarsa produttività, del nostro declino. È il costo del lavoro, o meglio la sua crescita superiore a quello della gran parte dei nostri vicini più importanti, sicuramente superiore a quello della Germania.

Ebbene, da qualche tempo a quanto pare abbiamo perso quest’alibi. Tra il 2004 e il 2017 secondo Eurostat il nostro costo del lavoro è cresciuto meno della media UE, ma non solo, anche meno di quello di Francia, Germania, Spagna.

La brusca frenata verificatasi dal 2012 in poi è stata più sentita in particolare in Italia, dove anzi è stata più evidente proprio dopo la fine della recessione, mentre in altri Paesi, quelli che meno avevano subito la crisi, come Francia, Germania, e ancora più i Paesi UE dell’Est, gli stipendi avevano continuato a crescere.

Tra l’altro costo del lavoro come sappiamo non è sinonimo necessariamente di salari, è incluso anche il cosiddetto cuneo fiscale, quell’insieme di tasse e contributi legate al lavoro, a carico del dipendente o dell’azienda. E sono proprio questi ultimi, ovvero i costi non salariali, a calare maggiormente. Con una differenza non da poco rispetto ai principali partner europei. Sono infatti cresciuti rispetto al 2004 solo del 14,93%, contro una media UE del 30,51%, incremento analogo a quello tedesco

I vari provvedimenti dei governi sulla tassazione del lavoro hanno avuto un qualche effetto, è incontrovertibile, anche se tra i Paesi UE rimaniamo nella metà più cara, con un costo orario nel 2017 di 28,2€, contro una media di 26,8€. Vi è sempre un alto scalino tra l’Europa Occidentale e quella Orientale, che sarebbe di più 8 euro tra Regno Unito e Slovenia, per esempio, se non ci fosse in mezzo la Spagna.

Tuttavia se tra il 2004 e il 2008, prima della crisi, eravamo tra i Paesi occidentali in cui il costo del lavoro cresceva di più (del 12,5% in 4 anni contro una media UE del 10,61%, contro il 4,1% della Germania e il 10,64% della Francia) nel 2017 eravamo in coda alla classifica, sia considerando solo l’Europa Occidentale che tutta la UE. Il progresso era solo dello 0,8% in un anno, a fronte del +2,3% medio della UE, e soprattutto del +2,6% della Germania e degli aumenti in alcuni casi in doppia cifra di alcuni Paesi dell’Est.

Perchè alla fine il punto è quello, la nostra competitività rispetto ai partner UE, quella che molti interpretano come una gara, secondo alcuni anche sleale, tra vicini, a chi riesce a essere più conveniente di fronte ai clienti internazionali o alle grandi multinazionali che devono decidere dove investire e dove no.

Negli anni passati la Germania era stata accusata di fare “dumping salariale”, tenendo bassi gli stipendi in un periodo, il decennio del 2000, in cui questi salivano un po’ ovunque in Europa.

Ed effettivamente fino al 2012 soprattutto nell’industria (dove il gap è maggiore) la differenza tra il nostro costo del lavoro e quello tedesco, più caro, era leggermente calato, mentre nei confronti della media UE già diventavamo sempre meno costosi. Tuttavia da allora siamo sempre più economici anche in confronto al Paese di Angela Merkel.

Oggi nell’industria costiamo meno del 30,85%, nel 2012 solo del 22,73%. Ancora maggiore il cambiamento nei servizi. Del 13,02% il gap a nostro favore, era del 2,7% nel 2008.

Ma è nei confronti dei Paesi dell’Est, quelli verso cui volano molte nostre aziende delocalizzate, da Embraco a FCA Auto, che è in atto il maggiore cambiamento.

L’Italia rimane sì, molto più cara, ma dal 2004 la differenza si è dimezzata in Polonia, passando da un costo del lavoro di quasi il 400% maggiore a uno più grande di meno del 200%.

In Slovacchia nello stesso periodo i salari sono cresciuti ancora di più e il nostro gap è 3 volte più piccolo.

Osservando i tassi di crescita annui del costo del lavoro nel 2017 in questi Paesi, +6,5% in Slovacchia, e +8,7% in Polonia, e confrontandoli con il nostro +0,8%, se le cose dovessero continuare così avremmo una parità tra l’Italia e questi Paesi entro una quindicina d’anni.

Tutto risolto allora? Siamo destinati a fermare in futuro la delocalizzazione delle nostre imprese costando come o meno di Polonia o Slovacchia?

Non proprio, perchè l’esperienza empirica ci dice che non è solo una questione di costo del lavoro.

Non c’è solo il fatto, di per sè evidente, che Paesi che ne hanno uno da sempre superiore al nostro, in primis la Germania, crescono più di noi e riescono a essere leader anche a livello manifatturiero e industriale nel continente (e oltre).

C’è anche l’esperienza tutta italiana di un enorme divario tra stipendi e di conseguenza costo del lavoro tra Nord e Sud. Con gap che raggiungono quasi il 40%. Secondo l’Osservatorio statistico dei consulenti del lavoro nel 2016 si arrivava a Bolzano a un salario netto di 1475€ mensili e si rimaneva a 1070€ a Ragusa.

Una distanza tra Nord e Sud che si sta allargando a guardare i dati delle dichiarazioni fiscali del 2017 (su guadagni del 2016), per cui i redditi dei dipendenti sono cresciuti rispetto al 2012, ma soprattutto al Centro Nord, segnando dei cali in Campania e Sicilia e progressi inferiori alla media in Puglia.

Ebbene, non ci sono state nè ci sono migrazioni di industrie da Nord a Sud, nè aziende venete hanno pensato di andare a Ragusa o Crotone invece che in Slovacchia, anche se probabilmente ormai gli stipendi delle aree rurali di Calabria e Sicilia siano ormai molto vicini a quelli di Bratislava.

Perchè purtroppo o per fortuna la competitività di un Paese è una cosa complessa, non è solo questione di salari da pagare e neanche solo di produttività, ma anche di competenze, di infrastrutture, di efficienza della giustizia e dell’amministrazione pubblica, e molto altro ancora. Anzi, le aziende in cui il solo salario dei dipendenti è la determinante più importante, in cui conta per esempio più del valore tecnologico incorporato, sono spesso quelle con margine minore, le meno produttive.

Che il nostro costo del lavoro stia finalmente crescendo molto meno che in Germania e nei Paesi dell’Est è quindi senz’altro una buona notizia, ma non pensiamo che questo possa bastare, da solo, a toglierci dai guai.

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