Telecom, ecco perché non sarà Cassa Depositi e Prestiti a salvarci dai cannibali francesi

L’intervento dello Stato può servire a frenare l'appetito del colonialismo economico francese, ma Cdp non è la nuova Iri, né mai lo sarà. E non sarà la mano pubblica a rivoluzionare le telecomunicazioni in Italia

Il contrattacco italiano su Tim con l’ingresso della Cassa depositi e prestiti allo scopo di impedire il predominio francese, è stato interpretato come un salto di qualità in sintonia con il nuovo spirito del tempo: torna lo stato interventista, torna la mano pubblica nell’economia a difesa dell’interesse nazionale, finisce la dittatura del mercato, si chiude il ciclo liberale che ha caratterizzato sia pure in modi diversi, la cosiddetta seconda repubblica. È così? Molti lo vorrebbero, il Movimento 5 Stelle e la Lega si sono già espressi in tal senso. Anche il ministro Carlo Calenda che non è un neo-sovranista né un protezionista, lancia su twitter frecciatine velenose contro i puristi del laissez-faire. Il fatto è che lo Zeitgeist uscito dalle urne rischia di inciampare con il principio di realtà, proprio come quando si comincia a fare i conti della spesa (pubblica). Il primo serio dubbio riguarda non solo gli obiettivi, ma gli strumenti per realizzarli. Quella di usare la Cdp come se fosse la nuova Iri, per esempio, rischia di essere un’illusione: la Cassa non ha né le risorse, né i poteri e neppure le capacità operative.

Diciamo innanzitutto che la reazione rapida di Paolo Gentiloni assomiglia più a un gesto che mescola irritazione a disperazione. In primo luogo, si riapre la telenovela sulla proprietà e la gestione del primo gruppo telefonico italiano che ha cambiato azionisti di riferimento a ogni cambio di governo: finora siamo a sette ribaltoni dal 1997 e non è finita qui. La partita si gioca in queste settimane, in campo c’è anche il fondo Elliott che possiede un pacchetto dell’8,8% e punta al 13. Secondo alcuni potrebbe convergere con la Cdp nel creare un fronte anti-francese. In secondo luogo, l’intervento del governo sconta le difficoltà incontrate dal tentativo di mettere Telecom Italia con le spalle al muro lanciandogli contro un concorrente a partecipazione statale come Open Fiber (posseduto da Cdp ed Enel). Poi c’è la protesta nei confronti di Vivendi, il gruppo controllato da Vincent Bolloré, che con il 24% s’è preso l’intero comando di Tim come se possedesse la maggioranza assoluta.

Il finanziere bretone è al centro di molti delicatissimi snodi di potere. È azionista numero due di Mediobanca subito a ridosso di Unicredit. A sua volta la banca d’affari creata da Enrico Cuccia è il primo socio delle Assicurazioni Generali. Sia Unicredit sia le Generali sono guidate da due manager francesi: rispettivamente Jean Pierre Mustier e Philippe Donnet. Inoltre Bolloré con Vivendi possiede anche il 29% di Mediaset congelato dall’intervento dell’autorità delle telecomunicazioni e dall’antitrust e dalla reazione di Fininvest.

La ragnatela di Bolloré non è l’unico campanello d’allarme. La presenza francese è forte nella finanza e nel credito (aggiungiamo la Banca nazionale del lavoro controllata da Bnp e Cariparma del Crédit Agricole che possiede anche la società di gestione Amundi alla quale Unicredit ha ceduto Pioneer), nell’energia (Edison posseduta da Edf è il secondo gruppo in Italia, mentre Suez è secondo azionista di Acea), nell’alimentale (Parmalat di Lactalis, Eridania, i vini Biondi Santi), per non parlare della moda e del lusso dove spadroneggiano Bernard Arnault con LVMH e Françis Pinault con la Kering. Dunque, la Francia è in tutti gli snodi essenziali della economia italiana molto più della stessa Germania che pure è il primo partner commerciale.

La vera questione non riguarda solo la massiccia calata del capitale francese, anche se negli ultimi dieci anni, cioè durante la lunga crisi che ha colpito l’Italia più di altri paesi europei, ben 124 aziende sono finite nelle loro mani per un totale di 32 miliardi. L’interscambio tra Italia e Francia mostra ancora un vantaggio italiano per quanto riguarda le merci (un attivo di oltre 6 miliardi di euro), ma c’è uno squilibrio negli investimenti diretti e nelle acquisizioni. Più che la quantità preoccupa la qualità degli interventi e il comportamento sia dello stato sia dei capitalisti transalpini. Il governo italiano è ancora scottato dal rifiuto francese di accettare l’acquisizione dei cantieri navali di Saint Nazaire da parte di Fincantieri che li ha comprati da una compagnia sudcoreana.

I francesi tendono sempre ad assumere il comando o con propri uomini o chiudendo in una ferrea gabbia decisionale i manager locali. È una caratteristica che ha creato più di un problema non solo in Italia. Quando Renault acquisì Nissan i giapponesi imposero un altolà tanto che Carlos Ghosn oggi gran capo dell’intero gruppo dovette studiare il giapponese. L’efficienza e la professionalità media dei dirigenti d’industria francesi non è in discussione, alcuni sono anche dei fuoriclasse. Ma il retaggio coloniale resta una grave debolezza del loro business model.

Dunque, ci sono buoni motivi per giustificare la reazione del governo italiano. Ma che cosa può fare in concreto Claudio Costamagna il banchiere d’affari presidente della Cdp che tutti vogliono e tutti chiamano nemmeno fosse il factotum della nazione? Di risorse ne ha, ma non può utilizzarle liberamente. Nata nel 1850 a Torino per finanziare gli enti locali del regno, la Cassa gestisce 250 miliardi di risparmio postale che fa parte della gestione separata e non può essere impiegato in operazioni ad alto rischio. Trasformata nel 2003 in società per azioni tramite l’ingresso delle fondazioni di origine bancaria con una quota inferiore al 30%, ha sottratto risorse preziose alla mannaia del debito pubblico, ma non sempre le ha investite per il meglio: difficile dimostrare che investire nel gruppo alberghiero inglese Forte corrisponda alla strategia di un Istituto di promozione nazionale, cioè lo status che le è stato attribuito tre anni fa con il piano Juncker di investimenti infrastrutturali.

Negli ultimi dieci anni, cioè durante la lunga crisi che ha colpito l’Italia più di altri paesi europei, ben 124 aziende sono finite nelle loro mani per un totale di 32 miliardi

Nonostante quel che si sente dire, la Cdp non è un fondo sovrano tipo quello norvegese anche se controlla il Fondo strategico italiano. E soprattutto non è una banca d’investimento. Se diventasse una vera banca (come alcuni hanno proposto tempo fa) dovrebbe passare sotto il controllo della Bce e aumentare in modo consistente il capitale per rispettare i parametri patrimoniali europei, risorse che dovrebbero essere fornite dalle fondazioni (che oggi non ne hanno abbastanza) o dal Tesoro cioè dai contribuenti.

Altro che nuova Iri. L’Istituto per la ricostruzione industriale veniva finanziato ogni anno con un fondo di dotazione pubblico, votato dal parlamento. Il suo compito era ben diverso e tra l’altro aveva una scuola di management industriale di prim’ordine. Alla Cdp il Tesoro ha passato i suoi pacchetti di Eni, Poste, Snam, Terna, Fintecna e Sace, ma sono poco più che operazioni contabili.

Si parla molto spesso di usare la Cdp come le sue cugine, la francese Caisse des dépots et consignations il modello al quale si ispirò il Regno di Sardegna, o la tedesca KFW nata nel dopoguerra per sostenere la ricostruzione. La prima è un braccio del ministero delle finanze, la seconda gode di ampia autonomia, ma si alimenta sul mercato emettendo obbligazioni. Dunque, sono due modelli diversi e la differenza fondamentale è sempre chi paga.

In che modo, allora, questa Cdp può intervenire nelle telecomunicazioni? L’obiettivo, coerente con la sua missione, è costruire una infrastruttura digitale avanzata (la banda super larga) e diffusa su tutto il territorio. Con l’ingresso nel capitale, anche se restasse solo al 5%, vorrebbe spingere Tim a scorporare la rete. Non a venderla alla Cdp, sia chiaro: costerebbe troppo (15-16 miliardi di euro almeno). Di espropriarla modello venezuelano non se ne parla (circola solo nei brain trust populisti). Dunque andrebbe conferita a una società in cui la Cdp porta Open Fiber pro quota, ma della quale Tim resterebbe di gran lunga l’azionista principale. Anche Elliott è d’accordo nel fare uno spezzatino separando le diverse società operative.

Operazioni del genere non sono frequenti (lo hanno fatto in Australia e sono tornati indietro) e soprattutto sono rischiose. Tim sostiene che la società della rete non sarebbe in grado di produrre utili. Il modello Terna è diverso, perché può contare su tariffe regolate non su prezzi di mercato. Se è così, torneremmo al vecchio adagio di pubblicizzare le perdite che vengono dalla gestione delle infrastrutture e privatizzare i profitti generati dai servizi. In tal caso, la Cassa dovrebbe ritirarsi perché non le è consentito di investire in aziende in rosso. Un circolo vizioso che non può essere spezzato né con scatti d’orgoglio né con surrogati velleitari.

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