La percezione della disinformazione online ha raggiunto una portata tale da richiedere interventi che vadano oltre i confini nazionali. Notizie false o ingannevoli sono sempre esistite ma la velocità e la diffusione favorita dal Web da meccanismi come gli algoritmi, il click baiting e i bot, hanno reso il fenomeno molto più difficile da individuare rispetto alla tradizionale propaganda e quindi, molto più arduo da contrastare. Quanto la disinformazione incida sulle scelte individuali e collettive al punto da condizionare eventi come gli esiti delle consultazioni elettorali è una questione demandata a esperti e studiosi, ma che la qualità del dibattito pubblico venga inficiata è un dato di fatto. Pochi giorni fa il Sunday Times ha pubblicato un articolo secondo cui la Russia avrebbe provato a condizionare l’elettorato inglese durante le elezioni dello scorso anno per favorire il partito laburista. Questo è quanto emerge da un’inchiesta svolta insieme alla Swansea University su circa 6 mila account russi, molti dei quali creati a poche settimane dal voto. Contenuti virali e mirati possono realmente incidere sul voto? Sul caso specifico, Andrew Chadwick, docente di comunicazione politica alla Loughborough University, ha mostrato più di una perplessità spiegando in una serie di tweet che non è stato reso noto nel dettaglio il metodo usato per condurre lo studio.
In realtà ogni volta che viene chiamata in causa la disinformazione intenzionale online per spiegare determinati esiti elettorali, studiosi ed esperti manifestano scetticismo e cautela. L’Unione europea da tempo sta affrontando il tema della disinformazione in rete, definita come l’insieme di “informazioni false o fuorvianti create, presentate e diffuse per ottenere un vantaggio economico o per ingannare le persone e che può creare un pregiudizio pubblico.” Nel mese di giugno dello scorso anno, il Parlamento europeo ha adottato una risoluzione per chiedere alla Commissione europea di verificare l’eventualità di adottare provvedimenti normativi in merito. Quest’ultima ha subito provveduto a costituire un gruppo di esperti che il 12 marzo scorso ha prodotto un report. Poi, è stata la volta di una consultazione pubblica tra il 13 novembre 2017 e il 23 febbraio di quest’anno grazie alla quale sono pervenute 2986 risposte. Quindi è stato condotto un sondaggio di Eurobarometer tra il 7 e il 9 febbraio su 26576 persone di tutti gli Stati Membri.
C’è però un ulteriore aspetto da considerare. Spesso la disinformazione è subdola e non assume l’aspetto di video o post virali ma di messaggi privati, su cui non è ipotizzabile alcuna attività di fact checking
Le domande hanno provato a valutare il livello di fiducia nei confronti dei canali di accesso alle informazioni, la frequenza con cui ci si imbatte in notizie false o ingannevoli, la capacità di identificarle e la percezione circa la diffusione della disinformazione nel proprio Paese. È stato anche chiesto di individuare i soggetti da coinvolgere tra operatori della comunicazione e Istituzioni per trovare delle soluzioni attuabili. L’85% degli europei reputa le notizie false come un problema per il proprio Paese e l’83% per la democrazia in generale ma il 71% ritiene di essere in grado di identificarle, pur riscontandole quotidianamente (37%). Dal sondaggio emerge anche che i giornalisti (45%), le autorità nazionali (39%) e la stampa e chi si occupa della divulgazione di notizie (36%) dovrebbero essere considerati i principali responsabili della qualità dell’informazione. I mesi scorsi sono stati dedicati all’approfondimento di un fenomeno già noto ma che le tecnologie digitali hanno riportato in maniera prepotente all’ordine del giorno e da poco sono state rese note le misure predisposte per affrontarlo. Innanzitutto è stato previsto un codice di condotta sulla disinformazione da pubblicare entro luglio per iniziarne a vedere gli effetti entro ottobre. Tra gli scopi: garantire trasparenza sui contenuti sponsorizzati, soprattutto politici, limitare il targeting e l’uso di bot, fare chiarezza sul funzionamento degli algoritmi, permettere agli utenti di accedere a fonti di notizie diversificate e alternative e prevedere un’attività di controllo da parte di ricercatori, fact checker e autorità pubbliche.
A questo proposito, verrà creata una rete indipendente di fact-checkers selezionati tra quelli dell’International Fact Checking Network per collaborare ed elaborare metodi di lavoro comuni. Il gruppo potrà partecipare ad una piattaforma sicura messa a disposizione online per condividere strumenti di analisi e accedere ai dati su scala europea. L’Ue inoltre aiuterà gli Stati contro le minacce informatiche e promuoverà un’informazione di qualità, diversificata, affidabile e di cui sia garantita trasparenza dell’origine delle notizie. C’è però un ulteriore aspetto da considerare. Spesso la disinformazione è subdola e non assume l’aspetto di video o post virali ma di messaggi privati, su cui non è ipotizzabile alcuna attività di fact checking. L’app più usata in Italia ma anche in Germania, Gran Bretagna e Spagna, solo per restare nel vecchio continente, è proprio un’applicazione di messaggistica istantanea, WhatsApp. A riportarlo è Diletta Parlangeli su Wired, che cita l’analisi fatta da Vincenzo Cosenza a partire dai dati forniti da AppAnnie relativi al 2017 su 25 nazioni e delle app più scaricate nell’ultimo trimestre dello scorso anno. La lotta alla disinformazione non può quindi limitarsi a regole, principi e attività di verifica, ma deve promuovere anche quella che potremmo definire un’alfabetizzazione mediatica. Infatti l’Ue intende favorire l’acquisizione delle competenze necessarie per usare gli strumenti messi a disposizione dalle tecnologie digitali, come dimostrano il Digital Education Action Plan, il Digital Competence Framework for Citizens e altre iniziative sulla cosiddetta media literacy.