Impastato, l’eroe comico (come tutti gli eroi veri) dell’antimafia

Nel 2018 sono 70 anni dalla nascita e 40 dalla morte del più coraggioso, più paradossale, più sfigato eroe civile. Un figlio di mafioso che colpiva la mafia con la satira. Senza protezioni

Nella storia vasta e tragica dei guerrieri antimafia lui è stato il numero uno. Il più coraggioso, il più scoperto. Il più anti-istituzionale, il più paradossale. Il più comico. Peppino Impastato nel 2018 avrebbe compiuto 70 anni (è nato il cinque gennaio 1948, è stato ucciso 40 anni fa, la notte tra l’otto e il nove maggio 1978) non ha la maschera integerrima del combattente per la legalità, anche se poi integerrimo lo era eccome, piuttosto la smorfia di quello che nella tradizione popolare siciliana si chiama Giufà, lo sfigato che rivela i guasti, gli imbrogli, le ipocrisie. Dal di dentro.

Perché attenzione, Impastato non è solo quello che urla “La mafia è una montagna di merda”, frase poi diventata un claim nel tascapane bricioloso di chi non sa che vuol dire vivere in un posto di mafia. Impastato è quello che con la sua trasmissione Onda Pazza, che andava in onda su Radio Aut a Cinisi, in pieno feudo mafioso di Don Gaetano Badalamenti, apriva con la canzoncina “Facciamo finta che tutto va ben” e sparava un mix feroce di satira e informazione. Striscia la Notizia, Le Iene, Blob, sono figli dell’archetipo/Peppino.

Chiamava Cinisi “Mafiopoli. Una città dove c’erano tanti amici, ed erano tutti amici e amici degli amici”, nominava Badalamenti “Grande capo Tano Seduto”, e raccontava “Don Tano prega” mentre in sottofondo andava “Pregherò” di Celentano. Poi, a un certo punto, arrivava sempre la colonna sonora de Il Padrino. Provate a pensare di fare una cosa del genere, una trasmissione di notte, in un paese di 20 mila orecchie che stanno ascoltando solo voi e due appartengono a Don Tano. E non c’è scorta, e non c’è appoggio dei giornali e delle tv perché fuori di lì nessuno vi conosce. In due, Impastato e Salvo Vitale, a fare avanspettacolo, usando la forma che distrugge il rispetto nella terra in cui vige il proverbio: «U rispettu è misuratu/ cu lu porta l’avi purtatu». Ridere al buio davanti alla Malamorte.

Avanspettacolo e denunce: i consigli comunali convocati a notte tarda. L’autostrada per Punta Raisi costruita a zig zag per non toccare i terreni degli “amici e degli amici degli amici, tutti amici”.

Siamo al paradosso del paradosso. L’eroe dell’antimafia che può fare antimafia grazie al fatto di essere figlio di un mafioso. Suo padre Luigi, soprannominato “Reginedda”, era uomo d’onore e amico di Don Tano Badalamenti. Badalamenti aveva chiesto a Luigi di ammazzare il proprio figlio. Invece il padre coprì Peppino. Il gioco di specchi si amplifica sempre più. Il padre mafioso che protegge il figlio eroe dell’antimafia, il vincolo di sangue -simbolo del tribalismo mafioso- che diventa salvacondotto per il più libero e solo eroe dell’antimafia

Impastato era stato sempre un libero guerrigliero anti istituzionale. Era convinto che l’università fosse inutile: si iscrisse a filosofia e si presentò al primo esame senza studiare niente, a scopo dimostrativo. Prese 28. Abbandonò. Nelle foto di quando ancora non aveva il barbone ideologico, emerge l’aria sfottente, equivoca, già dalla piega delle labbra.

Un guerrigliero con il dono dell’ironia. E anche della sfiga. Era innamorato di una certa Anna, con la quale non ci fu mai nulla, e lui, per auto-presa in giro fece l’acronimo del suo nome: Amore Non Ne Avremo. Un guerrigliero che non si perdeva in chiacchiere personal-politiche. Impastato, comunista doc, convinto della serietà di quello che faceva usando l’ironia, detestava ogni fricchettonismo e hippismo, chiamava i fricchettoni: “ri-creativi che non creano un cazzo”.

Era figlio di un mafioso, e in un certo senso proprio questa sua condizione gli aveva permesso una certa libertà di denuncia, oltre a dargli una ricca conoscenza di nomi, fatti, cose. Siamo al paradosso del paradosso. L’eroe dell’antimafia che può fare antimafia grazie al fatto di essere figlio di un mafioso. Suo padre Luigi, soprannominato “Reginedda”, era uomo d’onore e amico di Don Tano Badalamenti. Le “minchiate” di Peppino il “disgraziato” gli avevano procurato guai. Anni dopo la madre di Impastato raccontò che Badalamenti aveva chiesto a Luigi di ammazzare il proprio figlio. Invece il padre coprì Peppino. La crepa del paradosso si allarga sempre più. Il padre mafioso che protegge il figlio eroe dell’antimafia, il vincolo di sangue -simbolo del tribalismo mafioso- che diventa salvacondotto per il più libero e solo eroe dell’antimafia.

Fino a un certo punto. Fu la morte fortuita di Luigi, investito di notte dall’auto di una donna, per caso, a lasciare Peppino senza protezione. Ai funerali del padre Impastato non strinse la mano di Tano Badalamenti, decretando la propria condanna a morte.

E l’esecuzione avvenne nel modo più feroce. E si disse che Impastato era morto preparando un attentato, come Feltrinelli. Si cercava, dopo averlo ucciso, di distruggere la sua credibilità. Solo che il fool, il guerrigliero, il giullare, alla fine ce l’ha fatta. Sappiamo della sua guerra, del suo coraggio di giullare, della sua smorfia. Che poi a vedere bene il quadro di Dürer, il cavaliere di fronte a morte e diavolo ha quella smorfia lì. Quel sorriso lì. Un po’ da Giufà.

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