A sconfiggere Berlusconi ci abbiamo provato tutti, per più di vent’anni: giornalisti, intellettuali, politici, magistrati, scrittori, registi. Ci hanno provato tutti, non uno escluso, e tutti sono riusciti non solo a fallire l’obiettivo, ma finanche ad autodistruggersi, suicidandosi consumati dall’aver preso una battaglia politica, contro un’idea del mondo, per una battaglia personale, contro un uomo, finendo naturalmente per concentrarsi talmente tanto sulla cattiveria del diavolo da non riuscire ad accorgersi che il problema del berlusconismo non era Lui, ma Loro, la corte di nani, acrobati e ballerine che gli brulicava intorno e che, in trent’anni, ha inoculato quel virus becero di arroganza e potere in ogni ganglio del Paese.
Avevano sempre fallito, ma poi è arrivato Paolo Sorrentino, che già dalla scelta del titolo di questo suo ultimo film — Loro, non Lui — lasciava presagire di aver capito bene dov’era il punto dove scavare, e che, “mosso solo dalla volontà di comprendere”, come scrive lui stesso nelle note di regia, e senza voler per forza giudicare, ha “tratteggiato per squarci o intuizioni, un momento storico definitivamente chiuso che, in una visione molto sintetica delle cose potrebbe definirsi amorale, decadente, ma straordinariamente vitale”. Ci è riuscito? Dopo aver visto anche la seconda parte di Loro, che arriva nelle sale il 10 maggio, la risposta difficilmente potrebbe non essere un perentorio Sì. E l’effetto, soprattutto per noi anti berlusconiani da sempre, è liberatorio.
La carta che chiude il punto a Sorrentino questa volta non è la bellezza di inquadrature, movimenti di macchina, fotografia, dialoghi o recitazione (Servillo è impressionante, ma è in ottima compagnia). Questa volta quel che rende questo esperimento cinematografico del regista napoletano un punto altissimo del cinema italiano è il tono: la tenerezza. È questa la particolare inclinazione del punto di osservazione che Sorrentino a usato per inoltrarsi in quella che poteva essere una trashata pazzesca e che invece è tutto il contrario.
Una scena di cinque minuti scarsi, un dialogo perfetto, e l’invincibile impero del male di Berlusconi si sgretola sotto il suo stesso peso, il peso del patetico e del ridicolo. Di colpo il cattivone è tornato uomo, Hook ha perso la parrucca e non si può più non vederlo come quello che è, un povero vecchino con un gigantesco complesso di inferirità che ha paura di morire
C’è una scena, in questo secondo atto di Loro, in cui Silvio, durante una festa nella sua casa in Sardegna organizzata per lui da Tarantini con un fiume di ragazze, segue la più piccola, la ventenne e timida Stella, che sogna di fare l’attrice, in camera sua, una casta doppia con due letti singoli. Quando entra si toglie le scarpe e si siede sul letto libero, a fianco di quello di Stella. Poi si avvicina, le si siede affianco e prova a fare quello che fa con quasi tutti gli esseri umani che incontra, cerca di sedurla. Stella non solo non ci sta, ma con tutta l’ingenuità del mondo prima gli spiega perché ai suoi occhi tutto quello che ha intorno — lui, lei, la festa, le ragazze, perfino il suo togliersi le scarpe appena entrato — sia così insopportabilmente patetico, e poi prende il suo trolley e se ne va.
Una scena di cinque minuti scarsi, un dialogo perfetto, e l’invincibile impero del male di Berlusconi si sgretola sotto il suo stesso peso, il peso del patetico e del ridicolo. Di colpo il cattivone è tornato uomo, Hook ha perso la parrucca e non si può più non vederlo come quello che è, un povero vecchino con un gigantesco complesso di inferirità che ha paura di morire. Insomma, ci voleva la tenerezza, non la durezza del tono drammatico né la leggerezza di quello ironico, per inceppare la macchina di consenso e favori del berlusconismo. Fa ridere, ma forse Berlusconi aveva molta più ragione di quanto lui stesso probabilmente pensava quando diceva, molto cristianamente, che l’amore vince sempre sull’invidia e sull’odio. E infatti per sconfiggere il berlusconismo bastava togliere a Silvio la maschera del diavolo, guardarlo con candore e tenerezza, senza vomitargli addosso tutto l’odio del mondo, perchè è di quello che si nutriva.
Nei primi anni Novanta, all’inizio dell’epoca berlusconiana, quando le magliette del Che se le metteva ancora qualcuno, ce n’era una blu con una frase molto particolare disegnata sopra con il font delle macchine da scrivere. C’era scritto «Bisogna essere duri, senza mai perdere la tenerezza» e poteva sembrare una frase stramba detta da uno medico paramilitare che per un terzo della sua vita ha sparato e organizzato rivoluzioni. E invece, senza che ce ne rendessimo conto, aveva dentro il messaggio più rivoluzionario del secolo. E Sorrentino, che forse quella maglietta non l’ha mai vista, ha fatto il gesto più rivoluzionario possibile per il mondo di oggi, sempre più dominato dall’aggressività, dalla prepotenza e dall’odio di tutti contro tutti: è stato tenero, senza essere buonista.