Premessa doverosa: chi scrive vede con favore la ricerca sull’intelligenza artificiale, così come i vantaggi che possono derivare da una sua applicazione massiccia da parte di industrie, aziende, persone che decideranno di servirsene per cambiare, possibilmente in meglio, la propria vita. Si sgomberi il campo da ogni ambiguità: lo spauracchio della disoccupazione tecnologica, ovvero il disastro sociale in virtù del quale i robot ruberanno il lavoro agli esseri umani e ci porranno in una condizione di subalternità nei confronti delle macchine, è uno scenario che non mostra, dati alla mano, segnali concreti di potersi realizzare a breve. Il che è un bene, senza contare l’evidenza passata, che mostra come gli uomini siano sempre stati in grado di reagire di fronte alle grande innovazioni (rivoluzione industriale, elettrica, informatica di prima generazione) generando sempre più lavori di quelli che vengono distrutti.
Ecco, fatta la premessa, è bene però definire il campo dell’intelligenza artificiale utilizzando molto il sostantivo, vale a dire l’intelligenza. L’AI è tema di una complessità vastissima che è bene non accogliere con la distopia da Black Mirror, ma neppure con l’entusiasmo pollyannesco di chi, fideisticamente, vede nell’innovazione tecnologica necessariamente un cielo senza nuvole.
Per aiutarci a fare questo, c’è un libro poderoso, non nuovissimo (2014) in un dibattito che scade come gli yogurt, ma ancora attuale, scritto da un filosofo di Oxford, Nick Bostrom. È un bel libro di 500 pagine, ma potete gustarvi la pillola in questo bellissimo TED, dedicato appunto al titolo del libro: Superintelligenza.
Perché ci serve parlare di questo libro e perché non farebbe male leggerlo?
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