Se in mare non si possono alzare i muri, la fortezza Europa ha scelto di spostare le proprie frontiere al di fuori dei propri confini. Lo ha fatto per prima la Spagna – quella che oggi viene elogiata da tutti per l’accoglienza della nave Aquarius respinta da Salvini – alzando un muro con il Marocco a Melilla, in Africa, sin dal 1998. E lo abbiamo rifatto negli ultimi anni, affidando la gestione dei flussi migratori verso Grecia e Italia a due Paesi che non si distinguono proprio per il rispetto della democrazia e dei diritti umani: la Turchia per la rotta Est; la Libia per il Mediterraneo centrale. E proprio in queste ore viene fuori quanto dipendiamo da due Stati che, a seconda delle situazioni politico-economiche del momento, aprono o chiudono i rubinetti degli sbarchi di chi si è messo in viaggio per raggiungere le coste europee. E ora gli sbarchi sono ripresi. A partire dalla Libia, ma anche dalle coste turche.
Tanto che Salvini, in uno strambo gioco delle tre carte, secondo il quotidiano spagnolo El Paìs, vorrebbe addirittura chiedere a Bruxelles di spostare su Tripoli i tre miliardi da elagire alla Turchia perché continui a fermare gli sbarchi sulle coste greche. Il blocco a Est, secondo Roma, avrebbe spostato i flussi sul Mediterraneo centrale, e quindi verso l’Italia. Un “contentino” in più per convincere Tripoli a richiudere i rubinetti?
Dopo gli accordi stretti dall’ex ministro dell’Interno Marco Minniti con Fayez al-Sarraj e il generale Haftar, le partenze verso l’Italia erano diminuite del 78 per cento. Ma con l’addio del governo Paolo Gentiloni e l’arrivo di Giuseppe Conte, le partenze sono riprese. Il programma di rottura con il passato del nuovo esecutivo ha dato l’impressione di non voler mantenere gli accordi presi dall’Italia con i militari libici, in cambio del finanziamento e dell’addestramento della Guardia costiera. L’Italia è stata la prima potenza occidentale ad aver riaperto un’ambasciata a Tripoli e un consolato a Bengasi. Stringendo rapporti economici milionari: sarà, ad esempio, un consorzio di imprese italiane a costruire il nuovo aeroporto di Tripoli per un valore di oltre 70 milioni di euro.
L’uomo chiave dei nuovi rapporti Italia-Libia è stato Marco Minniti, che era riuscito ottenere non solo la fiducia di Sarraj, ma anche la distensione dei rapporti con il generale Haftar e le tribù, all’inizio contrari all’accordo Italia-Libia. Milizie e tribù avevano trovato un interlocutore in Europa. Un rapporto fatto anche di viaggi lampo a sorpresa, come quello del maggio scorso. Ma venuto meno Minniti, anche i rapporti di fiducia sono crollati. E con il vertice sulla Libia organizzato da Emmanuel Macron a fine maggio a Parigi, la Francia ha tentato in effetti di scalzare l’Italia dal suo ruolo di interlocutore privilegiato in Libia. L’intesa è stata raggiunta, ma senza alcuna firma nero su bianco e senza il consenso di 13 importanti milizie della Tripolitania.
Con l’addio del governo Gentiloni e l’arrivo di Conte, le partenze sono riprese. Il programma di rottura del nuovo esecutivo, le aperture alla Russia e al blocco di Visegrad, hanno dato l’impressione di non voler mantenere gli accordi presi dall’Italia con i militari libici
Intanto, le imbarcazioni sono tornate a partire da Tripoli. Matteo Salvini dal Viminale ha messo subito le mani avanti, dicendo che Minniti ha fatto un buon lavoro. E ha annunciato una missione in Libia entro giugno per rinnovare gli accordi. Cosa non facile da fare. Anzitutto perché il leader della Lega allo stesso tempo ha detto di volersi alleare di Viktor Orban e i Paesi di Visegrad, che da sempre erigono muri contro i migranti e si oppongono alla distribuzione in Europa. Ma anche perché il nuovo governo italiano ha aperto più di una porta alla Russia vicina al generale Haftar, che non riconosce l’autorità di Sarraj su Tripoli, appoggiata dall’Onu. E poi ci sono i dissidi interni a nuovo governo italiano: i grillini da sempre condannano gli accordi stretti da Minniti, che comportano il ritorno dei migranti bloccati dalla guardia di finanza libica nei centri di detenzione in cui non sono rispettati i minimi diritti umani. Eppure proprio su questi centri di detenzione condannati da più parti si basa oggi tutta la gestione dei flussi migratori dalla Libia verso l’Italia. Le nostre frontiere sono diventate quelle libiche e Salvini non può permettersi feritoie.
Tant’è che l’ultima idea del nuovo ministro dell’Interno sarebbe proprio quella di foraggiare i libici più di quanto abbiamo fatto finora. E l’idea sarebbe quella di mettere il veto sui tre miliardi del periodo 2018-2019 destinati ad Ankara, che si andrebbero a sommare agli altri tre miliardi che la Ue ha già versato tra il 2016 e il 2017. La decisione di dare il via libera al finanziamento richiede l’unanimità degli Stati membri: un terzo dei fondi, un miliardo, viene finanziato direttamente dagli Stati membri, mentre la parte restante deriva dal bilancio Ue.
Nel marzo 2016, dopo l’accordo stipulato con la Turchia sotto la spinta tedesca per bloccare la rotta balcanica, gli sbarchi in Grecia si sono subito ridotti. Ma Erdogan ha sempre usato l’apertura e chiusura dei porti per i 3,5 milioni di rifugiati siriani fermi sul proprio territorio come spauracchio per l’Ue, a seconda dei rapporti più o meno distesi con Bruxelles e della situazione politica interna. E da poco gli sbarchi sulle isole greche, Lesbo in testa, sono ripresi. Quando mancano solo pochi giorni alle elezioni anticipate del 24 giugno indette da Erdogan, al centro di una grossa crisi economica, tra la svalutazione della lira turca e l’inflazione a doppia cifra.
Salvini sarebbe intenzionato a “battere i pugni sul tavolo” di Bruxelles, che avrebbe agito in maniera più efficace per sigillare la rotta Est anziché quella libica. I tre miliardi, secondo il Viminale, sarebbero usati meglio in Africa per rafforzare il “muro” della guardia costiera libica, fermare le imbarcazioni e riportarle indietro. Soprattutto ora che gli umori libici andrebbero “addolciti” dopo l’endorsment di Salvini alla Russia e al blocco di Visegrad. Abdelmalik Barkani, delegato del governo spagnolo a Melilla, una volta disse: «Senza le barriere saremmo diventati una specie di Lampedusa». La lezione spagnola che Salvini ha imparato è questa, non quella dell’apertura umanitaria del porto di Valencia.