Altro che Euro, il vero guaio dell’Italia sono i mancati investimenti

In Italia vanno bene i consumi e male gli investimenti (anche stranieri). Così il Paese non trova rimedio ai suoi difetti strutturali, come il nanismo aziendale o la scarsa preparazione scientifica: se vogliamo crescere dobbiamo puntare su competitività e produttività

Patrick HERTZOG / AFP

“Mettere più soldi nelle tasche degli italiani”, “Far ripartire la domanda”. Nei dibattiti sulla politica economica non si può prescindere da tali affermazioni da tempo. E di fatto tutti gli esponenti politici si sono adeguati, con accenti diversi. E in particolare quelli che fanno riferimento all’attuale nuova maggioranza, che naturalmente tra i colpevoli di una domanda troppo bassa e del livello dei redditi pongono l’euro.

Il fatto è che però nella nostra fragile ripresa non sono affatto i consumi che stanno rimanendo indietro, ma qualcos’altro. Gli investimenti.

Rispetto ai livelli del 2010 il nostro PIL nel 2017 era ancora dello 0,6% inferiore, mentre i consumi delle famiglie del 1,6%. Una distanza molto piccola rispetto a quella esistente con la formazione lorda di capitale, ovvero gli investimenti, che, normalizzando a 100 il 2010, era a fine 2017 ancora a 84,9.

Questo proprio in un Paese in cui spesso si punta il dito contro il “neoliberismo” e l’eccesso di capitalismo. Dove in realtà i capitali non arrivano o non si formano.

A trascinare la crescita è stata invece soprattutto la componente export. Le esportazioni erano del 25,5% maggiori che 7 anni prima.

Mentre in Italia i consumi hanno avuto quindi un andamento molto simile a quello del resto dell’economia, altrove le cose sono andate diversamente. Nella UE in media il PIL è cresciuto del 10,4% dal 2010, i consumi privati del 7,1%.

In Francia le variazioni delle due grandezze sono state rispettivamente del 8,1% e del 6,3%. In Germania del 13,1% e del 9,8%. In Spagna del 5,4% e dello 0,4%.

Ovunque i consumi sono rimasti più indietro rispetto alla crescita decisamente più di quanto sia accaduto in Italia.

A fare la differenza sono stati appunto gli investimenti. Ovunque o sono cresciuti più del PIL, come in Francia (+18,5% contro +8,1% rispetto al 2010) e nella UE nel complesso (+13,9% contro +10,4%), o hanno avuto progressi inferiori, ma con scarti decisamente più bassi rispetto a quelli verificatisi in Italia. Soprattutto, un po’ ovunque si è ritornati ai livelli del 2010.

Persino in Spagna, dove nel 2013 la formazione lorda di capitale era crollata del 20% rispetto a 3 anni prima, e oggi è risalita alle medesime grandezze.

La Spagna, membro a buon diritto dei PIIGS, economia più piccola e fragile in origine di quella italiana, nonostante l’adesione all’euro alla fine sta mostrando di non avere subito danni alla propria competitività dalla moneta unica.

Sta anzi dimostrando che quando si punta proprio su questo, competitività e produttività, tutto il resto dell’economia ne beneficia. Anche i consumi, che seppure non tengano il passo con il PIL sono comunque cresciuti più che nel nostro Paese.

Non è neanche possibile affermare, quindi, che in Paesi come Germania o Spagna la “feroce austerità” imposta dall’appartenenza all’euro abbia costretto a guadagnare competitività a spese dei salari e della domanda.

Anzi, è nel nostro Paese, dove si è privilegiato nei fatti la salvaguardia dei consumi (calati nel momento peggiore del 5% rispetto al 2005, in linea con il PIL), e dove si è tralasciato, almeno nel dibattito pubblico, la questione investimenti, (che rimanevano 20 punti più in basso), che alla fine non hanno giovato di questa strategia nè gli uni, i consumi, nè gli altri, gli investimenti.

Sono esplose solo le esportazioni, che in parte dipendono anche da dinamiche esterne, come la domanda mondiale, e dimostrano in ogni caso come la moneta unica non sia certo un impedimento quando si tratta di commerciare con il resto del mondo.

E no, non si tratta solo della questione dell’edilizia. Non è colpa solo del crollo del settore delle costruzioni, e la ripresa degli investimenti in Spagna non è dovuta tanto al ritorno dei capitali interessati al mattone, come pure sta accadendo.

L’Istat nel suo rapporto sulla competitività mostra bene come considerando le attività materiali ed anche escludendo le costruzioni l’Italia rimanga largamente indietro rispetto alla media UE, ai vicini francesi, tedeschi, e soprattutto spagnoli.

Anche per quanto riguarda gli investimenti in attività immateriali, di fatto i brevetti, quanto mai centrali nell’economia globale basata sull’innovazione ci stiamo rivelando in ritardo.

La situazione è particolarmente grave considerando che abbiamo storicamente sussidi agli investimenti superiori alla media dei maggiori Paesi europei nonchè una tassazione degli utili comunque inferiore a quella di Francia e Spagna.


E’ chiaro, non solo non è stata prestata attenzione a mettere ordine nel nugolo di agevolazioni tanto costose quanto evidentemente inutili nei confronti delle aziende, ma non si è riusciti a rimediare a quelli che sono i nostri difetti strutturali, come il nanismo aziendale, la minore preparazione scientifica del nostro capitale umano, la carenza di investimenti in ricerca.

Si tratta di questioni che poco o nulla hanno a che fare con l’euro, ma più complesse e difficili da affrontare, soprattutto sono temi più noiosi da discutere nelle arene TV, rispetto a quello dell’Europa cattiva.

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