Il 24 giugno la Turchia eleggerà il nuovo parlamento e il presidente. Erdogan è in testa ai sondaggi ma stavolta potrebbe non farcela al primo turno. In questo caso con ogni probabilità vincerà al secondo turno 15 giorni dopo, ma potrebbe non avere la maggioranza in parlamento. Sarebbe la prima volta dopo tanti anni e potrebbe essere l’inizio del declino della sua parabola politica iniziata 16 anni fa. Da allora l’attuale presidente turco ha sempre controllato i giochi e ricoperto la posizione di primo ministro o presidente.
Nel frattempo ha consolidato il potere nelle mani sue e del suo partito, Giustizia e Sviluppo, in un modo che non si vedeva in Turchia da parecchio tempo. Il suo successo finora è stato dovuto allo sviluppo delle aree periferiche del Paese, che ancora sembrano preferirlo alle alternative.
Negli ultimi anni, però, l’economia turca ha iniziato a palesare segni di fatica che si leggevano già da tempo in alcuni indicatori. In particolare, la lira turca ha perso molto terreno contro dollaro ed euro, rendendo meno accessibile il costo del petrolio. Il prezzo della benzina sta salendo meno dell’aumento del petrolio perché il governo interviene diminuendo le accise, ma questo crea un ammanco di cassa che deve essere compensato con un aumento di altre tasse. Sullo sfondo ci sono i costi di una politica estera interventista anche a livello dei conflitti mediorientali, che sta mettendo in crisi la tenuta dei conti, anche per la politica di grandi opere come ponti, strade e moschee e al sostegno alla popolazione delle campagne che sa di mance elettorali. Da qualche tempo infatti la quadra non si trova più, le casse dello Stato si svuotano e, mentre la lira si svaluta, cresce l’inflazione, colpendo duro proprio la base elettorale del presidente in carica, che quindi lo sostiene molto meno entusiasticamente.
Se Erdogan dovesse davvero perdere il potere, sarà un’occasione molto importante per consolidare un’alleanza militare e geopolitica importantissima per l’Europa in vista di una Nato che vede gli Usa sempre più lontani se non addirittura avversi al Vecchio Continente
Insomma, se il successo elettorale di Erdogan finora è stato dovuto al miglioramento delle condizioni di una larga fetta di popolazione, adesso l’inversione di questa tendenza rischia di ritorcersi contro di lui.
Una vittoria al primo turno sembra sempre meno probabile, ma se Erdogan non raggiunge il 50% al primo turno i partiti di opposizione, pur divisi, controllerebbero il parlamento dopo molto tempo. Sulla vittoria finale al secondo turno, invece, pare ci siano pochi dubbi, proprio perché l’opposizione non è unita e un invito a votare uniti al secondo turno non necessariamente sarebbe ascoltato dagli elettori.
Fatto sta che i kemalisti, secolari e pro europei, sono galvanizzati e dicono che questa potrebbe essere la volta buona per finirla con il presidente. Questo potrebbe avere implicazioni importanti anche per la politica estera turca, negli ultimi anni sempre meno vicina alla Nato di cui pure è un tassello importantissimo. Un nuovo afflato kemalista e laico riporterebbe la Turchia più vicina all’Europa, che per Ataturk, fondatore della Turchia moderna dopo la dissoluzione dell’Impero Ottomano avvenuta in seguito alla prima guerra mondiale, era il modello da seguire.
Se Erdogan dovesse davvero perdere il potere, sarà un’occasione molto importante per consolidare un’alleanza militare e geopolitica importantissima per l’Europa in vista di una Nato che vede gli Usa sempre più lontani se non addirittura avversi al Vecchio Continente. La Turchia è una potenza militare importante e controlla alcune zone chiave per fermare sia i terroristi che i migranti. Un accordo con i turchi che regga oltre Erdogan, basato sul mutuo interesse, sarebbe una delle note positive che potrebbero avviare ad una almeno parziale risoluzione la questione dell’immigrazione, che è il vero tema sfruttato dai populisti europei. Inutile dire che più la Turchia ci è ideologicamente vicina, più questo sarebbe possibile senza scendere a compromessi scomodi sui diritti umani. Un altro buon motivo per il governo italiano per riformare l’UE in senso politico senza farla saltare.