Flat tax irrealizzabile e rivolta delle imprese: i sogni di Lega e Cinque Stelle si schiantano sull’economia

Decreto dignità e reddito di cttadinaza sono fermi. Le imprese si lamentano. Le banche non sono contente. Ecco perché dal punto di vista dell’economia il governo Carioca fa acqua da tutte le parti. E non uscirà facilmente dall’impasse

Il decreto dignità ha subito una battuta d’arresto, vittima delle contraddizioni in senso al popolo; il reddito di cittadinanza (che poi non è per davvero di cittadinanza) viene rinviato, vittima delle contraddizioni in seno al governo; la flat tax (che non è così piatta come la si è dipinta) finisce fuori dalla legge di bilancio per le contraddizioni in seno alla finanza pubblica e per quelle tra Roma e Bruxelles (è in corso un difficile negoziato allo scopo ottenere flessibilità sul bilancio pubblico, proprio come ai vecchi tempi di Matteo Renzi).

È passato meno di un mese dal giuramento del nuovo governo italiano davanti al presidente della Repubblica e le promesse giallo-verdi in tema di politica economica e sociale sono in ritirata di fronte alla realtà. Intendiamoci, non è che Matteo Salvini e Luigi Di Maio abbiano intenzione di rinunciare, ma debbono fare quel che finora hanno sempre rinviato: cioè fare i conti con le risorse e con gli interessi dei ceti che li sostengono, delle categorie, delle lobby e delle corporazioni che finora li hanno appoggiati.

Prendiamo la Confcommercio che ha tributato una standing ovation a Di Maio quando alla loro assemblea ha detto: «L’Iva non aumenterà, io sono con voi». Adesso il presidente Carlo Sangalli, letto il provvedimento del ministro del lavoro, lo dichiara senza mezzi termini «inaccettabile» perché è «un ritorno al passato sui contratti a termine»: le possibilità di proroga vengono ridotte da 5 a 4, e sono reintrodotte le causali, senza contare il contributo aggiuntivo di mezzo punto per ogni rinnovo. L’irrigidimento del mercato del lavoro non piace nemmeno alla Confesercenti, tanto meno alla Confindustria che ha lanciato un attacco ad ampio spettro: il partito della crescita contro il partito dei sussidi, quello che vuole produrre il reddito e quello che vuole distribuire il reddito che non è stato prodotto. Il presidente Vincenzo Boccia è uscito anche dai confini della economia in senso stretto per tirare una bordata contro uno dei principi fondamentali del Movimento 5 Stelle: “Se non vuoi sentire i corpi intermedi – ha detto – puoi fare pure la democrazia diretta, ma non si capisce chi ascolti”.

È passato meno di un mese dal giuramento del nuovo governo italiano davanti al presidente della Repubblica e le promesse giallo-verdi in tema di politica economica e sociale sono in ritirata di fronte alla realtà

“Sono con la Coldiretti” aveva proclamato Salvini lanciando la sua campagna contro il riso cambogiano. Salvo poi che il ministro dell’agricoltura, il leghista Gian Mario Centinaio, adesso mette in guardia dal protezionismo. Va bene il riso (sul quale c’è un contenzioso aperto da parte di tutti i paesi europei produttori, quindi non si tratta di una specificità italiana), ma «Salvini e Di Maio sbagliano dal punto di vista tecnico – sostiene Centinaio -, gli Stati Uniti vogliono mettere dazi sull’olio spagnolo. Se dovessero fare la stessa cosa con l’olio, il vino e la pasta italiana? Dovremo chiudere le aziende. Dazi chiamano dazi» Insomma con il protezionismo e con l’isolazionismo non si va da nessuna parte.

Gli industriali sono allarmati anche dall’idea di imporre sanzioni fino al 200% per chi delocalizza pur avendo preso sostegni dallo stato (per esempio i macchinari acquistati con gli incentivi di industria 4.0). A parte la difficoltà di farlo e a parte il fatto che non è chiaro se la legge Calenda verrà prorogata o no, è in ballo una questione di fondo: chi fa le scelte produttive, il governo o l’imprenditore? Tira un’aria da Gosplan che non può certo tranquillizzare le aziende. Nemmeno il salario minimo per legge convince la Confindustria, e non solo perché limita la contrattazione tra le parti sociali, ma perché, senza una riforma della rappresentanza e una revisione dei livelli a favore dei contratti aziendali, introduce un fardello in più, inutile se il salario minimo è uguale o inferiore a quello dei contratti nazionali, dannoso se è superiore, senza alcun collegamento con la produttività e la prestazione lavorativa.

C’è poi la posizione del ministro delle infrastrutture, il grillino Danilo Toninelli, il quale intende bloccare le grandi opere (come la Tav, la Tap, il Terzo valico) a favore di quelle che ha chiamato “opere piccole”. Mentre Di Maio sta sbattendo la testa di fronte all’Ilva. Adesso dice che deve studiare 23 mila pagine e rimanda tutto a settembre, quando arriverà la resa dei conti anche per l’Alitalia. I leghisti stanno alla finestra e pensano sempre al mitico rilancio di Malpensa. I pentastellati vorrebbero una nazionalizzazione usando la Cassa depositi e prestiti e trovando (chissà dove) altri capitali coraggiosi. Giuseppe Guzzetti a nome delle fondazioni bancarie, azioniste di minoranza della Cdp, ma dotate di un forte potere di veto, ha detto che si opporrà minacciando addirittura di uscire. Se ciò accadesse, la Cassa entrerebbe dritta dritta nel perimetro del debito pubblico. Di rinvio in rinvio c’è anche la fatturazione elettronica per i distributori di carburante (e perché non anche per altre categorie?). E altro seguirà certamente. A cominciare probabilmente dalla flat tax.

Qui esiste sia un problema di risorse sia una questione di equità. I messaggi finora inviati sono contraddittori. Salvini ha promesso una “pace fiscale”, cioè un mega condono per chi deve meno di centomila euro, con il quale finanziare almeno in parte la riforma dell’Irpef. A sentir parlare di condono s’è leccato i baffi tutto “il popolo delle partite Iva”. Poi sono arrivate le simulazioni sulla flat tax (si tratterebbe di due aliquote e quattro scaglioni come effetto di deduzioni e detrazioni che debbono rendere progressiva una imposta di per sé proporzionale). Sono ipotesi ancora di scuola, ma mostrano che i benefici maggiori vanno ai redditi più elevati. Del resto Salvini aveva detto che voleva ridurre le imposte ai ricchi perché consumano di più e così facendo aiutano tutta l’economia, facendo sfoggio di reaganismo padano.

Tra i ripensamenti e gli avvertimenti c’è quello di Carlo Messina, il capo della banca Intesa Sanpaolo. La settimana scorsa ha pronunciato una frase allarmante che poca eco ha avuto sulla stampa e nessuna in televisione. Ha detto che la minicrisi dello spread è costata cara alla sua banca la quale ha visto ridursi da 53 a 43 miliardi il suo valore azionario: «Eravamo la terza banca europea – ha detto Messina – adesso siamo la quinta. E si è ridotta anche la nostra forza: a 33 miliardi diventiamo contendibili», cioè scalabili

Fatti i conti in tasca e visto che il condono non darà in ogni caso risorse sufficienti, i contribuenti cominciano a farsi il loro conto dei costi e dei benefici. Tanto più che emergono altre idee non del tutto tranquillizzanti: una patrimoniale sugli immobili che s’aggiunge alle imposte già esistenti e un taglio alle pensioni. Si parla di quelle oltre i cinquemila euro mensili, ma chi tocca le pensioni muore, lo si è visto con la legge Fornero.
Ma lo si è visto anche nel 2011 quando fu la Lega Nord di Umberto Bossi a mettere in crisi il governo Berlusconi il quale, incalzato dalla Bce (ricordate la ormai famosa lettera dell’agosto?) aveva deciso di mettere mano a una riforma. Capofila della rivolta di palazzo allora fu Roberto Calderoli che è ancora politicamente vivo, vegeto e pimpante.

Insomma, per governare non bastano annunci e proclami. Di Maio se la prende con la bollinatura e altre astrusità burocratiche. A parte il fatto che si tratta di verificare la fattibilità delle misure immaginate, il vicepresidente del Consiglio è stato parlamentare nonché vicepresidente della Camera, quindi di queste cose deve aver sentito parlare, sia pure nel mitico corridoio dei passi perduti che attraversa il palazzo di Montecitorio.

Tra i ripensamenti e gli avvertimenti c’è quello di un grande banchiere come Carlo Messina, il capo della banca Intesa Sanpaolo. La settimana scorsa ha pronunciato una frase allarmante che poca eco ha avuto sulla stampa e nessuna in televisione. Ha detto che la minicrisi dello spread è costata cara alla sua banca la quale ha visto ridursi da 53 a 43 miliardi il suo valore azionario: «Eravamo la terza banca europea – ha detto Messina – adesso siamo la quinta. E si è ridotta anche la nostra forza: a 33 miliardi diventiamo contendibili», cioè scalabili. È un memento di grande importanza, perché ricorda ai partiti, ai ministri e all’opinione pubblica che la politica non è chiacchiera da caffè: gli atti si pesano su una bilancia crudele che può far pendere il piatto contro gli interessi del paese, dei cittadini, del “popolo”. Ma non solo gli atti, a volte le parole stesse diventano macigni.

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