Una poesia è esemplare. S’intitola In morte di Alessandro. “Citando Hermann Broch./ Parlavamo della fine di Regeni”. Il finale ha una nitidezza di cristallo. “Io non credo in nessun dio, Alessandro,/ Per questo adesso ti so/ In quell’isola a Nord di Ortigia/ Chiamata Syria per il sole al tramonto,/ Terra beata dove in tarda età soltanto/ Si muore/ Per la freccia gentile di Apollo in un istante/ E senza provare dolore”. Il procedimento è semplice e affascinante. Il dato storico attuale, corroso dall’attualità – la morte di Regeni – si salda nel mito, nell’assoluto. La poesia passa da Broch alle “Virtù e Principati” a Marco Aurelio all’Odissea, come se i secoli fossero una pozzanghera, con quella sintesi sul dolore, che è uno spillo d’oro. Franco Buffoni ha compiuto 70 anni, ha scritto – tra i libri poetici più celebrati: Suora carmelitana e altri racconti in versi, Il profilo del rosa, Guerra, Jucci – ha tradotto – tra i moltissimi, i ‘romantici’ inglesi, da Keats a Coleridge e Byron, poi Kipling, Yeats, Heaney, Wilde – ed è tra i grandi teorici della traduzione, un nome inevitabile. La linea del cielo (Garzanti 2018, pp.196, euro 18,00), perciò, mi pare, con i suoi versi epigrafici – “Ormai che il tempo tracce pesanti ha lasciato/ Sui volti anche dei figli/ Degli ex allievi” – e l’atto di anatomizzare la memoria, e la dichiarazione d’identità lirica (“La mia genealogia ‘tematica’ è più appenninica che lombarda, o meglio, è giuliano-friulana con Saba e il primo Pasolini, poi bolognese, quindi passa per la Perugia di Penna per giungere alla Roma di Bertolucci e Bellezza”), comunque, un libro ‘definitivo’, delle definizioni ultime. Sostanzialmente, il detto è ironico, icastico, in beatitudine novecentista, con Kavafis su un ginocchio e Orazio tra i capelli. Il respiro bocca-a-bocca con il poi, con l’oltre vita, ci porta versi di caustica intensità: “Per quando col mio corpo del ventesimo secolo/ Sarò un relitto tra gli adolescenti/ Delle classi del dodici e del tredici,/ Come Caproni e Sereni, classi belliche./ Una vecchia iena di passaggio anche lì come dovunque”. Qui, in balia del niente, in ballo con il tutto, sta il carisma di Buffoni, che con spietata pietà guarda al mondo e all’uomo, senza assolvere.
Da un lato “La linea del cielo” (e poi: perché questo titolo? Narra il tuo vagare “Tra due città”?) mi pare regesto dei giorni, registro narrativo, dall’altra libro epigrafico, definitivo. Carne e marmo, se vuoi. Penso alla chiusa, notevole, “Doppio fregio”, ad esempio, dove suona Kavafis, forse. Insomma: da dove nasce e come cresce questo libro?
Il titolo col quale l’anno scorso proposi il libro a Garzanti era Codice Verlaine. Perché l’annuncio in codice dello sbarco in Normandia, trasmesso da radio Londra alla resistenza francese, corrispondeva all’attacco della Chanson d’automne di Paul Verlaine: “Les sanglots longs des violons de l’automne”. L’espressione “I lunghi singhiozzi dei violini d’autunno” mi è sempre parsa quanto di più decadente e insinuante una mente snob potesse concepire per annunciare l’inizio della carneficina liberatoria, cui dovevano corrispondere da parte dei maquisard azioni di sabotaggio contro stazioni e depositi di munizioni, incroci stradali e ponti. Il messaggio trasmesso il 1 giugno con quel verso significava che l’invasione era imminente e sarebbe stata confermata dal completamento della lassa entro quarantotto ore. Ma il 3 giugno radio Londra – invece di scandire il seguito: “blessent mon coeur d’une langueur monotone” (mi feriscono il cuore d’un monotono languore) – ritrasmise l’inizio. Le avverse condizioni atmosferiche avevano costretto i comandi a rimandare l’attacco. Soltanto alle 22.15 del 5 giugno la lassa fu completata. Il fatto che migliaia di uomini pronti al sacrificio supremo siano rimasti per tre giorni in spasmodica attesa di un verso tanto languido mi sembra degno del Dormeur du val rimbaudiano. Ma la proposta venne bocciata perché, dopo Codice da Vinci, i titoli con la parola codice si sono moltiplicati. Allora pensai al dualismo Milano/Roma molto presente nel libro: dalle guglie alle cupole come nel logo dei treni, quindi: skyline. Ma Il profilo del cielo non andava bene a me, avendo già pubblicato Il profilo del Rosa nel 2000 nello ‘Specchio’ Mondadori. Così sono pervenuto alla traduzione letterale: La linea del cielo. Libro definitivo? Forse sì. Carne e marmo? Certamente sì. Il doppio fregio viene da frate Agostino da San Gimignano nell’ultimo giorno di febbraio dell’anno 1299. Kavafis è sempre presente.
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