Quando si parla di “intelligenza artificiale” viene in mente il futuro o, in alternativa, un mondo ritratto da libri di fantascienza e pellicole cinematografiche. Nulla di più sbagliato: l’intelligenza artificiale, abbreviata comunemente con il binomio “A.I.” (“Artificial intelligence”), è già tra noi. E ha conseguenze dirette sui nostri stili di vita.
Il 18 giugno, a Bruxelles, presso il Comitato economico e sociale europeo (CESE), si è svolto lo A.I. Europe Stakeholder Summit (#AIEurope), un incontro che ha radunato Commissari europei, ma anche – e soprattutto – i diretti interessati provenienti dalla società civile, dai sindacati, dalle imprese e dall’accademia. L’obiettivo? Avanzare nella riflessione riguardo ai tre pilastri-tematiche intorno alle quali si snoda la strategia europea sull’intelligenza artificiale: le sfide legali ed etiche; gli impatti socio-economici e la competitivtà industriale.
Una strategia europea per l’intelligenza artificiale
Strategia europea? Già. Qualcuno potrebbe cadere dal pero, ma, in relazione all’A.I., l’Europa si sta muovendo a suon di Dichiarazioni, Comunicazioni, nonché progetti concreti. Ma facciamo un passo alla volta.
In primo luogo, ad aprile, su spinta della Commissione, si è concluso il processo di definizione di un Gruppo di 52 esperti di alto livello sull’Intelligenza artificiale che avrà il compito di assistere e fornire consulenza a Palazzo Berlaymont. Si tratta di una mossa usuale delle istituzioni europee quando si confrontano con tematiche nuove e che richiedono la partecipazione allargata di vari stakeholder. La spinta alla creazione di un Gruppo di esperti ha fatto seguito al Consiglio europeo dello scorso ottobre.
In secondo luogo, i 27 Paesi membri dell’UE hanno siglato una Dichiarazione di cooperazione relativa alla materia, data 10 aprile 2018. I contenuti? L’impegno a dare luogo a una strategia comune e transfrontaliera che possa incasellare le opportunità, ma anche le sfide legate all’A.I. Infine, alla Dichiarazione ha fatto seguito una Comunicazione della Commissione europea (Artificial Intelligence for Europe), la quale ha delineato, in un documento di 20 pagine, le componenti essenziali del piano europeo, richiamato anche dall’evento del CESE.
In realtà, parlando di risorse dedicate all’area A.I., l’impegno dell’Europa è di lunga data: tra il 2014 e il 2020, 2.6 miliardi di euro sono stati allocati nel quadro del programma Horizon2020 a robotica, big-data, tecnologie emergenti, e applicazioni varie nei settori salute e trasporto. Senza contare che l’industria robotica ha anche beneficiato di 2.1 miliardi di euro di investimenti privati. 27 i miliardi mobilitati invece per le competenze, tramite fondi strutturali, di cui 2.3 per il digitale. Più in generale, secondo la Commissione, entro il 2025, il valore economico generato dall’automatizzazione e dalla robotica raggiungerà una cifra tra i i 6.5 e i 12 mila miliardi annui.
“Human in command” e la posizione della Commissione
In occasione dell’ A.I. Stakeholder Summit di Bruxelles, la Commissaria all’economia e alla società digitale, Mariya Gabriel, ha richiamato innanzittutto l’importanza del tema. La gestione e la governance dell’“intelligenza artificiale rappresenta un priorità politica”, dalla quale possono derivare enormi benfici. In quali aree? Su tutte, in quelle del “settore medico e del cambiamento climatico”. “Ma l’Europa deve guidare questa trasformazione”, ha specificato Gabriel, sottolineando: “L’industria e il nostro sistema di educazione sono assett fondamentali in questo senso”.
Va specificato che, proprio la Commissione europea, ha già definito, nel quadro del piano di investimenti Digitale Europe (2021-2027) – un pacchetto di investimenti dedicati al digitale – 2.5 miliardi di spesa solo per l’AI. E per chi pensa che l’AI sia soltanto una questione di calcoli e strumenti ingengeristici, la stessa Commissaria ha dichiarato: “Dobbiamo investire nelle persone […] abbiamo bisogno di analisti e ingegneri, certo, ma anche di filosofi” che sappiano gestire i processi.
Un concetto, quello della centralità delle persone nel processo di sviluppo dell’AI che si ritrova anche nello slogan del Comitato economico e sociale, “Human in command” (“L’Uomo in controllo”, tdr.) coniato da Catelijne Muller che, già nel 2017, è stata referente della prima Opinione del CESE sull’intelligenza artificiale. Oggi, in quanto Membro del gruppo di esperti sopra menzionato, nonché presidente del Gruppo di studio tematico sull’AI del CESE, Muller ha specificato: “‘Human in comand’ significa che dobbiamo esercitare controllo sull’AI e non farci travolgere da questa onda”.
Il dibattito: etica, industria e lavoro
Nei prossimi mesi e anni sono tre le macro-aree relative alle quali istituzioni europee, governi nazionali e società civile dovranno trovare strumenti di governo e standard adeguati: le questioni etiche e legali, le conseguenze in ambito sociale, nonché il rafforzamento della competitività del settore industriale. In funzione di questi campi di applicazione (e tutela), durante l’incontro al CESE, sono stati sviluppati altrettanti gruppi di lavoro. In merito alle questioni legali ed etiche, Aimee van Wynsberghe (Università tecnologica di Delft) ha spiegato che gli interrogativi sono innumerevoli. “Possiamo discernere l’AI dagli sviluppi tecnologici in altri campi? Come possiamo difendere i consumatori dai rischi derivanti dall’intelligenza artificiale, per esempio dall’invasività della cosiddetta ‘internet delle cose’ (Internet of things, ndr.)?”. E ancora: “Al di là dell’intesa unanime riguardo alla centralità della questione etica, quando usiamo quest’ultimo termine, a chi facciamo, o meglio, ‘dovremmo’ fare riferimento? Per esempio, se pensiamo alle implicazioni in termini di produzione di nuove tecnologie, è sicuramente necessario risolvere i nodi etici con riferimento agli interessi del terzo mondo. D’altra parte, una riflessione diversa va sviluppata in merito alle azioni e responsabilità di politici, noncheé iagli aspetti tangenti il mondo della religione”.
Sono domande che, se non altro, dimostrano quanto sia complicato il tema in questione. Anche per questo, Indre Vareikyte (CESE), relatore del gruppo di lavoro relativo alla competitività industriale, ha commentato che è fondamentale fare uno sforzo di “story telling”, in modo da fare “chiarezza”, anche a livello di linguaggio giornalistico, di cosa parliamo quando afrontiamo il tema AI. Oggi, l’intelligenza artificiale rimane, spesso e erroneamente, una questione “da esperti”.
Infine, Laure Batut (CESE), relatrice del gruppo di lavoro dedicato alle conseguenze dell’AI in ambito economico e sociale, ha delineato un’ampia gamma di domini che meritano ulteriori approfondimenti. “Non ci sono soltanto conseguenze potenziali sul mercato del lavoro, in termini di perdita di impiego, ma anche aspetti qualitativi, psicologici e di benessere delle persone: come verrà ri-bilanciato l’equilibrio vita-lavoro? L’AI influenzerà anche in nostri sistemi e logiche di welfare”. Ciò non implica che la riflessione sui livelli di occupazione sia secondaria, anzi.
AI, quando il mercato non basta
Batut ha ribadito la centralità dei fattori “educazione e formazione sul posto di lavoro” per far fronte alla transizione AI. Ben inteso, si tratta di un investimento che “non può essere lasciato in mano ai privati e ai mercati”, ma che “implica un’azione coordinata, tra Paesi Membri, ma anche tra livello nazionale e comunitario”. Altrimenti? L’AI potrebbe riprodurre o rafforzare le disuguaglianze di produttività che si sono sviluppate in Europa a livello intra-nazionale (per esempio, Europa del Nord vs Sud ed Est), ma anche regionale, all’interno dei singoli Paesi (per esempio, Nord Italia vs Meridione).
Il rischio “disuguaglianze crescenti” insito nella transizione verso l’AI è stato sottolineato anche da Robert Went (WRR, Consiglio scientifico per le politiche di Governo olandese). Went ha spiegato come quella “geografica-territoriale” sia un tipo di disugualgianza che si aggiunge a quelle più tradizionale “tra cittadini appartenti a differenti fasce di reddito e di richezza”, all’interno della stessa comunità nazionale di riferimento. Nonostante ciò, Went ha anche ribadito che l’intelligenza artificiale porterà a crescita di produttività soltanto laddove le imprese risuciranno a forgiare un nuova complementarità lavoro-capitale. In altri termini, lo scenario per cui staremmo avanzando verso una sostituzione di umani con robot rappresenterebbe “uno scenario improbabile”, perché non remunerativo per i privati stessi.
Scenari che, di per sé, non possono certo rassicurare i sindacati. Thiebaut Weber, Segretario confederale della Confederazione europea dei sindacati (ETUC), ha parlato dell’esigenza di sviluppare un “Fondo di transizione europeo”, sulla falsariga del Fondo di aggiustamento per la globalizzazione, che possa non soltanto diventare un argine a eventuali perdite di posti di lavoro, ma anche inentivare, a livello europeo, la ristrutturazione, in anticipo, di determinati impieghi.
A fargli eco, Mario Mariniello (EPSC) che ha ribadito quanto l’intelligenza artificiale, al netto dei benefici e delle incerte implicazioni sul mercato del lavoro, potrebbe radicalmente “ristrutturare i rapporti interni alle aziende fra datori e prestatori di lavoro”. Mariniello ha anche sottolineato che “i mercati non possono gestire una transizione del genere, semplicemente perché non lavorano sempre in maniera ottimale […] la sfida dell’AI chiama in causa un ripensamento delle stesse politiche sulla concorrenza”, finora un perno del sistema comunitario.