Matteo Salvini è riuscito a costruire l’alleanza di governo con il Movimento 5 Stelle di Luigi Di Maio, e a presidiare i ministeri che aveva “chiesto” in campagna elettorale. L’Interno, il suo, per affrontare in prima persona gli interventi per la sicurezza e l’immigrazione. Le Politiche agricole, per rispondere a quel settore, dai pescatori alle piccole realtà montane, che gli chiedono una sponda in Europa. La Famiglia e le Disabilità, invenzione tutta salvianana, a cavallo fra welfare e politiche identitarie. E poi le chiavi di Palazzo Chigi, con Giancarlo Giorgetti, sottosegretario alla presidenza del Consiglio, dal cui tavolo passeranno tutti i dossier del governo. E’ riuscito ad andare al potere, Salvini. Ma scendendo al compromesso, per evitare di arrivarci sulla macerie di un Paese stretto fra la voglia di cambiamento e gli avvertimenti dei mercati. Avrebbe dovuto sfidare troppi palazzi, il segretario della Lega, per arrivare col vento in poppa alle elezioni anticipate.
La squadra di ministri che giura nelle mani del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, alla fine non spicca. Non è di rottura. Tanti politici di secondo piano, da Lega e M5S. E, anzi, molti professori, i tanto vituperati professori che il fronte populista voleva cacciare da Roma. Vero, sono intellettuali di area. Critici cioè con l’eccessivo formalismo dell’Ue, benzina elettorale ormai comune. Il braccio di ferro con il Quirinale su Paolo Savona si è risolto appunto con un compromesso: l’ex ministro di Ciampi è andato al ministero senza portafogli per le Politiche comunitarie. Tratterà con Bruxelles, ma alle dipendenze di altri. Al ministero dell’Economia, al suo posto, è invece approdato Giovanni Tria, docente a sua volta orientato su posizione eurocritiche ma senza l’esuberanza e la notorietà di Savona. Un compromesso è stata anche la nomina di Enzo Moavero Milanesi, questo sì un amico dell’Europa: il nuovo ministro degli Esteri è stato ministro per i rapporti con l’Ue con Mario Monti ed Enrico Letta. Non proprio un populista. E poi, ovviamente, c’è il professore dei professori: il capo del governo, Giuseppe Conte.
La squadra di ministri che giura nelle mani del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, alla fine non spicca. Non è di rottura. Tanti politici di secondo piano, da Lega e M5S. E, anzi, molti professori, i tanto vituperati professori che il fronte populista voleva cacciare da Roma
Si dice che sul nome di Conte, Salvini avesse già raccolto molte perplessità della base leghista la prima volta che era emerso il suo nome. Il voto era andato a ‘Salvini premier’, slogan netto e ossessivo di un campagna elettorale iniziata già nel 2016. I leghisti non avevano votato un tecnico. Anche per questo, insomma, il casus belli di Savona, che aveva fatto ritirare il presidente del Consiglio incaricato appena domenica scorsa, sembrava l’appiglio giusto per far saltare tutto. Per portare le istituzioni in piazza. Ingaggiare una nuova campagna elettorale, preannunciata da sondaggi che proiettavano la Lega verso il 30%. Divorando il partito di Silvio Berlusconi, rosicchiando voti a Di Maio e continuando a lasciare ai margini il Pd. La reazione dura dei mercati e della Bce, la sensazione di non poter portare il paese allo scontro fino a rischiare la paralisi finanziaria e, quindi, l’impopolarità fra quei ceti produttivi del Nord che gli avevano dato fiducia, ieri hanno riportato Salvini a Roma per trattare. E chiudere l’accordo di governo.
Roberto Maroni, l’ex segretario non sempre tenero con il suo successore, lo aveva sconsigliato di «cedere alle indebite pressioni grilline per fare un governo qualsiasi». Per Maroni, meglio salvaguardare l’unità del centrodestra e portarlo al governo unito in autunno. Nel partito però è maturata intanto la consapevolezza di essere in un vicolo cieco, di essere a un punto di non ritorno: sfidare la sorte o dominarla. È stato un altro ex segretario leghista, il fondatore, Umberto Bossi, a dirlo ormai ieri sera, sceso dal volo Alitalia che aveva riportato lui e Salvini a Milano da Roma: «Non c’era alternativa, è una soluzione costretta dalla realtà».
Questo governo Lega-M5S, dunque, si “doveva” fare. Non poteva essere eluso. Ma per farlo, non ne è uscito un Esecutivo di rottura, il governo del cambiamento ha tutti ministri tecnici nei dicasteri che rappresenteranno l’Italia all’estero: gli Esteri, l’Economia, gli Affari Europei ma anche la Difesa. E saranno alla fine solo i due leader, Salvini e Di Maio, nel ruolo di vicepremier, ad avere tutta la scena interna. Al Viminale, il primo, al Lavoro e allo Sviluppo Economico il secondo. La sicurezza e il reddito di cittadinanza. Un palcoscenico utile per alzare i toni, occuparsi degli argomenti più facilmente monetizzabili in termini elettorali. E per controllare da vicino la squadra di ministri. Vien da pensare che quando Salvini si accorgerà che questi professori non saranno abbastanza dediti alla causa o non saranno così tanto controllabili, sarà allora che farà saltare tutto. Colpa loro, dirà prima di ritornare dagli elettori. E prima che i suoi sostenitori consumino l’effetto novità, che tutto fa perdonare.
Twitter: @ilbrontolo